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Linda
Dividiamo lo stesso letto, ma siamo lontani anni luce. Io in una galassia e lui in un’altra. È sempre stato così, ma adesso è peggio. Non ho più voglia di visitare il suo mondo e, dopotutto, lui non ha mai avuto nessuna intenzione di conoscere il mio.
Abbraccio nostro figlio Lucas, che separa i nostri corpi. Ancora un’altra notte da sconosciuti. Un’altra notte inutile, dove non chiuderò occhio pensando al tempo che corre, a quell’insopportabile quattro che, troppo in fretta, primeggia tra le due cifre che decretano la mia età. Un’altra notte tormentata dal pensiero di cosa sono e di chi avrei voluto essere.
Fisso il laser della sveglia, che proietta sul muro l’ora. Le 3.00, le 3.30, le 4.00… Chiudo gli occhi, cercando di cullarmi in un pensiero sereno, provo a svuotare la mente e infine conto le pecore, che invece di saltellare in fila iniziano a muoversi in un unico, scoordinato gregge. Sono stanca, odio le pecore e non trovo pace. Mi alzo dal letto rassegnata, portandomi via il cuscino, poi mi butto sul divano, leggendo le quotazioni della chiusura di Wall Street dal mio smartphone.
Dividere il letto con Max è straziante: non vedo l’ora che finiscano i lavori nello studio e che lui ritorni a dormire di là. Chiudo gli occhi qualche ora, per poi farmi svegliare dalla luce, che filtra dalle tapparelle del salone chiuse male. Sono le 6.00. Infilo la tuta, mi lavo velocemente la faccia cercando di non fare rumore, mi metto un filo di trucco e infine esco a correre.
Un’amica mi aspetta per farlo insieme, come ogni maledetto sabato. È uno dei pochi diversivi ancora permessi dal virus, che oramai da due anni attanaglia il mondo.
Quel maledetto muta continuamente, censurando le nostre esistenze. La libertà che ci è rimasta è fatta di briciole, ma dopotutto io non sono mai stata libera, nemmeno prima.
Elisabeth mi fa un cenno con la mano, le sorrido vedendola da lontano, e quel movimento forzato del viso è la mia prigione. La maschera perfetta, che da anni mi allontana dal mondo e che mi rende la persona che voglio che gli altri vedano. La brillante, intelligente, ironica me. Con la sua fottutissima casa lussuosa, il suo grosso suv, abiti firmati, mille interessi, un lavoro prestigioso… e soprattutto un’invidiabile famiglia. Corriamo per oltre un’ora, lamentandoci del lavoro e amabilmente dei mariti. Parliamo della costosa scuola privata dove mandiamo i nostri figli, e ci facciamo complimenti sui nostri capelli perfetti e sulle nostre unghie laccate. Sorrido così forte che mi fa male il viso. Sono così vuota che ho paura che il vento mi trascini con sé, facendomi scomparire. O forse, in fondo, lo spero.
Quando ci fermiamo al dehors del bar, anche il cameriere mi sorride dietro alla sua mascherina alla moda. Ormai possiamo farlo solo con gli occhi. Non mi va di ricambiare. Ma lo faccio comunque.
«Mi saluti il Senatore Bennet» dice melenso.
«Con piacere» mento.
Non ho davvero nessuna intenzione di salutargli mio padre, così mi sposto per consumare il mio cappuccino in pace, ma la città comincia a svegliarsi.
Oggi non me la sento di tuffarmi in questo gomitolo di soffocante distanza sociale, non dopo questa notte, non dopo questi ultimi anni. Voglio solo che finisca il week-end per potermene tornare al lavoro. Per fortuna ho di nuovo il privilegio di non dover lavorare in smart working.
Quando arrivo a casa, mio marito e mio figlio stanno ancora dormendo. Adagio, il mio adorato Pastore Bernese mi salta addosso leccandomi ovunque. E finalmente mi strappa un sorriso, uno di quelli veri, che concedo di rado.
Preparo la colazione, organizzo il pranzo, piego una lavatrice e sistemo il bucato. Ormai sono gesti automatici, una routine noiosamente consolidata ma dalla quale non voglio sottrarmi. Ho bisogno del controllo su ogni singolo gesto, su ogni azione che compio. Sulla posizione di ogni soprammobile, di ogni oggetto. Ho bisogno del controllo su ciò che mi circonda, per non perdere il controllo di me stessa e mantenere inalterata la mia maschera perfetta. Quella che ho costruito per anni. Una maschera che ora è il mio stesso viso, e che mi opprime al punto che posso sentirla sulla faccia: stretta, angusta e soffocante. Come la mia stessa vigliaccheria.
Passo il resto del week end con Lucas a giocare con il Pongo, a costruire Lego e a fare gare di automobiline. Quelle sue risate, che riecheggiano per la casa, sono una delle poche cure a questo mio torpore.
«Mamma, costruiamo una navicella spaziale?» domanda rotolando sul tappeto.
Max, passando accanto a noi, mi avvisa che sarà fuori tutta la settimana per la campagna elettorale di mio padre.
«Non contare su di me fino alla fine del mese» esclama senza guardarmi. Ma in realtà non ho mai contato su di lui, e il pensiero di non vederlo per qualche giorno mi leva un peso dallo stomaco.
Trascina il suo trolley fuori dalla porta d’ingresso, dimenticandosi di salutare suo figlio.
Ci siamo ma non esistiamo, per lui. Siamo solo un accessorio della sua immagine. Così come lo ero per mio padre, oggi lo sono per mio marito. Quando metto a letto Lucas, che prima di addormentarsi mi domanda per l’ennesima volta perché il suo papà non giochi mai con lui, mi nascondo in un angolo della camera e tiro fuori il mio vecchio violino. Apro la custodia e lo guardo soltanto. Non lo suono più da vent’anni, da quell’ultima sinfonia: l’Adagio di Albinoni, al funerale di Ethan. Lascio scorrere le dita sul legno tiepido e sulle corde tese. Sotto la fodera di velluto che avvolge la custodia, c’è un piccolo taglio dove ho nascosto l’unica fotografia di Ethan che mi è rimasta. La contemplo qualche istante, ormai non ho più lacrime. L’avvicino al viso e la respiro, come se potessi davvero ricordare il suo odore. Invece, se non fosse per quell’immagine, a stento ne ricorderei il volto. Vent’anni volati in un battito d’ali… ali non mie, ahimè.
Come vorrei essere ancora capace di piangere, sarebbe tutto più semplice.