Sara Rattaro: «Racconto la ricerca di felicità della mia generazione»

Di Francesca Redolfi

Partiamo dal presente: chi è Sara Rattaro oggi?

Sono una scrittrice, la mia attività principale sono i romanzi. L’ultimo, il ventitreesimo, uscito agli inizi di marzo, è Io sono Marie Curie, la biografia romanzata della grande scienziata. Ho scritto anche romanzi per ragazzi, alcuni per bambini delle elementari: insomma, abbraccio un po’ tutte le fasce d’età.

Come seconda attività mi occupo di insegnare nella mia scuola di scrittura La fabbrica delle storie, che ha sede a Milano ma tiene anche lezioni on line.

Faccio anche la coach, ovvero aiuto le persone a trovare il modo giusto di raccontare la storia che hanno in testa, e svolgo attività di editing. 

Inoltre insieme a mio marito ho una casa editrice, la Morellini editore, per la quale mi occupo della collana Femminile singolare, che pubblica romanzi sulle grandi donne della storia.

 

Com’è iniziata la sua carriera da scrittrice?

Il primo romanzo l’ho pubblicato con Mauro Morellini. Il secondo, Un uso qualunque di te, è uscito nel 2012 con Giunti e ha avuto un successo inaspettato. Non avrei mai immaginato che potesse piacere così tanto, c’è stato un grandissimo passaparola di pubblico. Forse perché ha tirato fuori delle parti femminili che spesso noi donne siamo obbligate a tenere nascoste, o il senso di inadeguatezza che talvolta viviamo. Poi c’è stato Non volare via, la storia di un ragazzino sordo, anche quella importante per la mia carriera.

 

E poi è arrivato il Premio Bancarella…

Con il Premio Bancarella, ottenuto nel 2015 per Niente è come te, c’è stato un riconoscimento da parte del pubblico e per me la consapevolezza che quello doveva diventare il mio mestiere.

Io sono laureata in biologia, quindi non ero da sempre convinta di fare la scrittrice. Eppure quella laurea mi è servita molto: oggi posso raccontare di Marie Curie, parlare ai ragazzi di Albert Sabin, Ettore Majorana. In generale trovo utilissimo avere una cultura scientifica.

Si pensa erroneamente che per scrivere si debba essere un letterato, almeno su carta, ma in realtà non è proprio così: io ad esempio sono sempre stata una fortissima lettrice, per cui molta della mia cultura letteraria è arrivata da lì.

 

Ha frequentato anche scuole di scrittura?

No, perché quindici anni fa erano proprio poche, c’era solo la Holden, ma era a Torino, io lavoravo a tempo pieno e non mi era possibile frequentarla. Però ho preso lezioni privatamente, ho fatto uno studio “tecnico” sulla scrittura, che è quello che anche io oggi metto a disposizione degli aspiranti autori. Perché, al contrario di quanto si pensa, il mestiere di scrittore è altamente tecnico. Spesso si crede che bastino l’ispirazione e il talento, in realtà le storie devono funzionare, bisogna saperle costruire e avere gli strumenti per farlo. Ci sono tecniche narrative da imparare, come lo show don’t tell, il punto di vista, tanti escamotage… Poi ovviamente la scrittura è la tua, ma c’è tanto da studiare, più di quanto si immagini.

 

Tornando ai suoi romanzi, ha scritto anche dei libri per ragazzi.

A un certo punto mi è stato chiesto di scrivere un romanzo per ragazzi, allora ho deciso di raccontare una storia che mi piaceva molto da piccola, me la raccontava sempre mio nonno. Così, nel 2017 è uscito per Mondadori Ragazzi Il cacciatore di sogni, la vicenda di Albert Sabin, l’inventore del vaccino contro la poliomielite, un vaccino che non ha brevettato e ha voluto fosse sempre di dominio pubblico perché lui era ebreo, aveva subito delle persecuzioni, odiava le discriminazioni. «Il nazismo ha sterminato una parte della mia famiglia – diceva – e io per punizione salverò i bambini di tutto il mondo».

 

Da quel libro, ha proseguito con romanzi per ragazzi e adulti.

Sì, ho continuato a scrivere con un doppio binario.

Per ragazzi ho sempre scritto storie di personaggi straordinari ma veri. Una parte del mio lavoro di scrittrice riguarda proprio la ricerca di queste persone e delle loro storie. Credo che per i ragazzi dell’età delle medie sia utile presentare un modello, persone che in una situazione molto difficile hanno fatto qualcosa di grande, e veicolare messaggi molto puliti.

Mentre per gli adulti può funzionare anche il personaggio che è sceso a compromessi, con i romanzi per ragazzi ho quest’attenzione a mantenere valori positivi e personaggi privi di lati oscuri.

 

Lei è anche docente…

Per sei anni sono stata docente di scrittura alla facoltà di Scienze della Comunicazione a Genova. Poi ho fondato La Fabbrica delle storie a Milano. Teniamo un corso annuale, ci si incontra una volta al mese, e si arriva alla pubblicazione di racconti. C’è un unico tema su cui stare, quest’anno è “la follia”. Il corso aiuta le persone a capire com’è questo mestiere, dall’editing alle presentazioni, che sono un passaggio fondamentale. I libri oggi non si vendono da soli, bisogna essere bravi promotori di sé stessi.

 

A questo proposito, com’è stato il suo percorso?

La mia fortuna è stata che non mi aspettavo niente. Mi sembrava già una grandissima cosa aver pubblicato un romanzo e che qualcuno che non conoscevo l’avesse letto e apprezzato.

Poi ho iniziato a fare quello che tutti dovrebbero fare, ossia farsi conoscere.

All’epoca c’era solo Facebook come social, quindi ho sfruttato quel canale, e poi sono andata in giro a fare presentazioni, chiedendo ai librai di darmi spazio, agli amici di portare gente… ovviamente più ti allontani da casa e meno persone conosci e vengono. Ho fatto presentazioni in cui non c’era nessuno. Serve anche questo, sono state ottime scuole di vita.

Certo, è un meccanismo che va compreso e che non ti si deve rivolgere contro, ovvero non devi sentirti un fallimento, è normale che sia così: nessuno va alla presentazione di un autore che non conosce. Bisogna incontrare i librai, iniziando da quelli della propria zona, e ampliare sempre un po’ di più…

 

È un consiglio valido ancora oggi?

Oggi le cose sono un po’ cambiate, c’è più possibilità di farsi pubblicità con i social o su Amazon. D’altra parte, sono triplicate le persone che vogliono pubblicare, la concorrenza è diventata veramente forte.

Nella narrativa per adulti poi non ci sono tantissimi filtri, un po’ per via delle autopubblicazioni e un po’ perché molte case editrici pubblicano talvolta libri non entusiasmanti… il rischio, insomma, è che si trovi un po’ di tutto e per un lettore è difficile individuare la qualità. Ci sono anche dei meccanismi di “visibilità”: l’influencer che pubblica il libro perché è conosciuto. Poi ci sono le piattaforme di scrittura. Insomma, il meccanismo commerciale non è da sottovalutare.

Il punto è che è ovvio che se sei uno sconosciuto, vivi in una città di provincia, hai poca rete perché fai un lavoro in cui non fai il comunicatore, è difficile che se esordisci con un editore medio-piccolo domani sarai in classifica, perché il tuo libro lo comprano parenti e amici.

Bisogna puntare sul fatto che se vuoi fare lo scrittore non lo fai con un romanzo, lo fai con ventitré romanzi…

 

Questo discorso vale anche per la narrativa per ragazzi?

La narrativa per ragazzi è molto più curata perché loro sono un pubblico molto esigente, se non gli piaci a pagina due non leggeranno mai pagina tre, sono molto tranchant. Questo fa sì che i testi della narrativa per ragazzi siano molto curati, quindi se riesci a pubblicare in quel settore vuol dire che mediamente hai fatto un buon lavoro.

 

Di che genere sono i suoi romanzi?

Non ho un genere definito, non scrivo gialli, non scrivo romance. Mi definisco una romanziera contemporanea.

Racconto un po’ la mia generazione, i cinquantenni di oggi, quelli che hanno portato sulle spalle il cambiamento del concetto di famiglia.

Sono cresciuta pensando come tutti che la famiglia fosse quella del Mulino Bianco, dove l’amore funzionava per sempre ed era uno e unico. Ma poi nella realtà la mia generazione queste cose non le ha sempre realizzate. Io stessa sono al mio secondo matrimonio, ma se me l’avessero detto quando avevo 16 anni mi sarebbe preso un colpo!

Eppure quello era il modello che arrivava dai genitori, che ti facevano credere che le loro unioni durature fossero anche felici. Certo sì, erano durature, ma magari di felicità non ce n’era così tanta… Oggi noi cerchiamo di essere felici e così arriviamo alla rottura di rapporti, però spesso lo facciamo creando grandi pasticci, grandi dolori. La mia è una generazione che non è così educata ai sentimenti, alla sofferenza, perché non ce l’hanno mai insegnato: non si vedeva soffrire nessuno, c’erano molti tabù. Le famiglie unite parlavano di tutto tranne che di amore, dolore, sesso.

 

In alcuni dei suoi romanzi racconta storie vere…

Sì, ad esempio Niente come te è una vicenda di sottrazione internazionale di minori, una madre che porta la figlia in Danimarca, un padre che da solo combatte contro un paese straniero.

Anche Non volare via è una storia vera, parla di un bambino sordo, che nella realtà era una bambina.

Splendi più che puoi è un romanzo che affronta il difficile argomento della violenza di genere, racconta di una donna sequestrata per sei anni da suo marito negli anni ’90, quando ancora non esistevano leggi sullo stalking. Ho cambiato luoghi e nomi ma è una vicenda vera.

La giusta distanza è la storia di due persone insieme da vent’anni, senza figli, che non sanno se dividere le proprie strade o continuare… Altro grande quesito di attualità, perché si vede sempre un divorzio come un fallimento, ma se gli togli l’aura religiosa di fatto il matrimonio è un contratto che si stipula e da cui si può recedere. È brutto pensare che sia così, ma è anche vero che dietro un divorzio potrebbe esserci un’altra felicità.

E qui sta la potenza della narrativa: i romanzi fanno quel lavoro di educazione che non ha fatto, e tuttora non fa, la famiglia, perché è molto difficile parlare di certe cose, soprattutto se non le abbiamo vissute direttamente. Invece i romanzi lo fanno, offrendo una possibilità di riflessione. Molti lettori mi dicono: mi sono ritrovato nella tua storia, ho capito i sentimenti che provavo. È un modo anche per sperimentare un altro punto di vista.

Nei romanzi non si vuole insegnare niente a nessuno, e non si danno delle risposte, ma semmai si trovano altre domande, che stimolano la discussione e la curiosità.

 

I suoi romanzi hanno un lieto fine?

Sì, perché l’editoria italiana lo preferisce (sorride). Io in realtà sono un po’ più cinica, il mio primo romanzo è un libro in cui speranze non ce n’erano. Oggi, con l’esperienza che ho, ammetto che è stato pubblicato perché con un editore indipendente: la grande editoria probabilmente avrebbe virato verso un finale con più speranza. Che fa anche bene, è come fornire un senso di conforto nei confronti di chi legge. Certo, io non amo il finale eccessivamente edulcorato che può sembrare un po’ posticcio, ma magari un finale aperto dove uno ci può mettere la speranza che vuole.

 

Che genere di libri legge?

Leggo tante donne, sono una femminista. E pubblico donne, nella collana Femminile Singolare. Credo molto nella parità di genere, ma ritengo anche che se noi donne non ci aiutiamo reciprocamente non la raggiungeremo mai, quindi il mio piccolo contributo all’universo è proprio fornire delle occasioni alle donne.

Leggo romanzi femminili perché come tutti a scuola ho letto molti romanzi scritti da uomini, a cui è sempre stato dato ampio spazio. È una cultura sbilanciata. Si pensi al fatto che tutti leggiamo Pirandello a scuola ma nessuno legge Grazia Deledda, anche lei Premio Nobel.

 

Anche il suo ultimo romanzo parla di una grande donna.

In Io sono Marie Curie ho voluto romanzare la storia di questa grandissima scienziata, l’unica che ha preso due Premi Nobel, uno in fisica e uno in chimica, la prima donna a insegnare alla Sorbona. Eppure non si sa che è stata anche una donna di grande passionalità e umanità, che ha lottato con i denti per l’affermazione del suo genio in un’epoca in cui il genio femminile era ignorato.

Si pensi che il primo Premio Nobel che ricevette fu assegnato al marito, nonostante la ricerca fosse stata fatta da lei. Un marito illuminato, che fa sì che il nome della moglie compaia nel premio. Quando il marito muore, lei perde tutto: il marito, il compagno, l’amante, il suo migliore amico. L’unico con cui poteva parlare di scienza, il suo grande amore.

Dopo un po’ di anni, Marie si rinnamora, ma di un uomo sposato con figli. E l’opinione pubblica la massacra, tanto da chiederle di non ritirare il suo secondo Nobel. Lei invece – esempio di vita anche per noi oggi – va lo stesso a ritirarlo. Perché, dice, gliel’hanno dato per il suo lavoro, non certo per le sue scelte personali.

Credo che la cosa bella e utile di questo romanzo sia il fatto che lei lottava per essere giudicata per ciò che faceva. Le stesse battaglie che, a distanza di centovent’anni, facciamo noi donne ancora oggi.

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