Ogni volta che leggo un romanzo di Stefania Bertola (e non ne ho perso nemmeno uno dal suo esordio), ho la sensazione di trovarmi di fronte alla Sophie Kinsella italiana.
Non solo perché adesso, vista la prematura, e tanto sofferta da parte di tutti i suoi lettori, scomparsa della indiscussa regina del chick-lit anglosassone, forse in qualche modo si cerca una sua eredità in altre penne, anche nostrane. Non solo perché la Bertola è stata la traduttrice di tutti gli ultimi romanzi, anche dell’ultimo, il più intimo e autobiografico, della Kinsella, e in qualche modo sembra averne assorbito delle tracce. Non solo perché Stefania Bertola ha scelto un filone, quello delle commedie rosa, quando ancora non si chiamava chick-lit o rom com, fin dal suo esordio, senza mai perdere il passo e anzi affinandolo romanzo dopo romanzo.
Ma per l’abilità della Bertola di farti sorridere e passare ore liete, cosa che certamente condivide in pieno con la compianta scrittrice oltre Manica. Per chi come me attendeva ogni anno l’uscita del romanzo della Kinsella, per chi ne apprezzava, oltre all’immancabile ironia, anche gli aspetti più profondi, una certa commozione in alcune parti, un messaggio più complesso rispetto all’apparente frivolezza di un romanzo che non ha la pretesa di chiamarsi altro che narrativa, così si traduce dall’inglese, per “pollastrelle”, insomma, per gli aficionados irriducibili, rimasti di sasso per la scomparsa della Kinsella, trovare una penna come quella di Stefania Bertola è un lieve balsamo che certamente non cura, ma fa trascorrere, come si diceva, qualche momento spensierato.
La rosa e la spina è un romanzo leggero, che scorre sotto gli occhi con il piacere a cui l’autrice ci ha abituato.
Dei personaggi della Bertola ci si innamora facilmente: di Rosa, lasciata dal marito il giorno di Natale, di Clementina, la cognata un po’ tra le nuvole, da sempre innamorata di Claudio, che invece è in perenne ricerca della donna della vita, e il lettore ha già individuato chi è dalle prime battute ma i personaggi ancora no, perché loro non vedono quelle sfumature che noi dall’altra parte della pagina invece cogliamo subito, e facciamo il tifo perché le colgano, capiscano, arrivino al tanto desiderato lieto fine. Che arriva, arriva. Se dovessi fare un appunto, ma infinitesimale rispetto alla piacevolezza del testo, è che quel lieto fine avrei voluto vederlo volentieri sotto gli occhi, e non solo immaginare l’epilogo felice. Bertola è talmente brava a costruire le situazioni che una scena finale in cui le tessere del puzzle vanno al loro posto l’avremmo vista con grande diletto. Ma questa, più che una mancanza del romanzo in sé, è desiderio che quelle pagine continuino ancora. E siamo già in attesa del prossimo romanzo.

