Ah, la lingua italiana! Un elegante tango di vocali e consonanti che però – come tutti i ballerini – ogni tanto inciampa. Ma attenzione, perché quel che oggi chiamiamo “errore” ieri era stile, e ciò che oggi giudichiamo con aria di sufficienza era norma di tutto rispetto. E così, amici, benvenuti nell’affascinante mondo delle parole che il tempo ha deciso di mandare in pensione (o di ridicolizzare, che è peggio).
Prendiamo arancie, per esempio. Oggi, se scrivi “arancie” al posto di “arance”, rischi di essere rimandato in prima elementare, magari con una maestra che ti guarda con compassione. Ma nel Settecento e nell’Ottocento questa “i” era tutt’altro che un errore: era un modo legittimo e diffuso di scrivere il plurale di quei succosi frutti arancioni. Una scelta stilistica, direbbero i poeti. E invece oggi? “È sbagliato,” sentenziano i grammarnazi. Ma chi sono loro per giudicare? Non si chiamava forse Boccaccio quel tizio che scriveva “fiorancie”?
E che dire di roccie? Sì, proprio con la “i”. Questa “i” se ne stava lì tranquilla e rispettabile, decorando testi letterari e manuali di geologia, finché qualcuno – presumibilmente un accademico severo – ha deciso che le parole in -cia e -gia dovevano perdere la vocale se il suono era dolce. Via la “i”! Peccato che nel frattempo quella “i” fosse entrata nel cuore degli scrittori, quasi fosse il tocco finale di un’opera d’arte. Ma no, dovevamo semplificare. Così ora abbiamo rocce, senza fronzoli. È più pratico? Forse. È più elegante? Decisamente no.
E poi ci sono le adorabili pantoffole. Quelle calzature comode e accoglienti, con una “t” in più che oggi ci farebbe ridere. Ma nell’Ottocento nessuno rideva: le pantoffole erano la norma linguistica, e nessuno osava suggerire che togliere quella “t” avrebbe reso la vita più facile. Poi, un bel giorno, la lingua italiana ha deciso che le pantofoline potevano fare a meno di quel vezzo consonantico. Oggi ci immaginiamo i nostri bisnonni che infilano le “pantoffole” con aria distinta, e viene quasi voglia di rimettere quella “t”, se non altro per amore della tradizione.
Infine, eccoci a diacciata, una parola che sembra uscita da un romanzo storico. “Diacciata” è quel termine che ci ricorda che il gelo, una volta, aveva un suono tutto suo, più arcaico, più poetico. Oggi è diventata “ghiacciata”, una versione più concreta e “congelata”. Ma dite la verità: non vi viene un brivido romantico solo a leggerla?
La verità è che la lingua cambia, sempre. È viva, e come ogni essere vivente si evolve. Ma attenzione: l’evoluzione non sempre è sinonimo di miglioramento. Perché sì, possiamo ringraziare le riforme linguistiche per averci tolto qualche doppia di troppo o aver semplificato i plurali, ma non possiamo negare che certi dettagli ci mancano. Erano le rughe di un volto maturo, le cicatrici di una lingua che ha vissuto.
Quindi, la prossima volta che vedete qualcuno scrivere “arancie”, non ridetegli in faccia. Potreste star guardando un nostalgico dei tempi in cui il nostro vocabolario indossava ancora la giacca con i bottoni dorati. E poi, chissà, fra cent’anni magari qualcuno scriverà un articolo ironico su di noi che dicevamo “qual è” senza apostrofo. Perché sì, amici, il cambiamento linguistico è l’unica costante: oggi è regola, domani sarà errore.
E voi, preferite le arancie o le arance?
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