A CURA DI
Dopo aver raccontato il Giappone come un paese di contrasti, sicurezza e regole non scritte, la domanda che prima o poi affiora è inevitabile: e se non fosse solo un viaggio? E se diventasse davvero un luogo in cui vivere, anche solo per un periodo? È una riflessione che mi accompagna da tempo, soprattutto dopo il mio viaggio ma anche grazie agli incontri che sto facendo negli ultimi mesi con giapponesi che, curiosamente, stanno vivendo l’esperienza opposta: l’Italia. Attraverso HelloTalk, una piattaforma di scambio linguistico, ho conosciuto una ragazza giapponese che in questi giorni sta viaggiando per tre mesi in tutta la penisola, un’altra che l’anno prossimo vivrà a Firenze per un anno di studio, e un ragazzo che da Tokyo si è trasferito a Vicenza, dove oggi vive insieme alla moglie italiana. Storie diverse, ma accomunate dalla stessa spinta: il desiderio di uscire dal proprio contesto e respirare un altro mondo.
Quando però si parla di Giappone, il sogno deve fare i conti molto presto con la realtà. Vivere nel Paese del Sol Levante non è qualcosa che si improvvisa. Il Giappone è estremamente rigido sul tema dell’immigrazione e non consente di restare a lungo senza uno status ben definito. Ogni permanenza superiore al semplice turismo, possibile per 90 giorni, passa necessariamente attraverso un visto preciso, con regole chiare e margini di flessibilità molto ridotti. Ed è proprio qui che molti entusiasmi iniziali si scontrano con la burocrazia.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è aperta una possibilità molto interessante anche per noi italiani, ed è una novità che nel 2025 è pienamente confermata e operativa. Mi riferisco alla Working Holiday Visa, frutto di un accordo bilaterale tra Italia e Giappone. È un visto pensato per i giovani tra i diciotto e i trent’anni che permette di vivere in Giappone fino a un anno intero, lavorando senza bisogno di un vero e proprio permesso lavorativo tradizionale. Non serve uno sponsor, non serve un contratto firmato prima di partire: si entra nel Paese con l’idea di viaggiare e sostenersi economicamente lungo il percorso. È, di fatto, l’occasione più accessibile in assoluto per capire se il Giappone può essere qualcosa di più di una semplice meta esotica.
Questo visto non è pensato per costruire una carriera, ma per vivere il Paese dall’interno. I lavori che si possono svolgere sono generalmente part-time e legati alla ristorazione, all’ospitalità, alle scuole di lingua o ad attività simili. È un anno che molti usano come banco di prova: si studia la lingua, si crea una rete di contatti, si comprende il ritmo della vita quotidiana e, in alcuni casi, si tenta il passaggio verso un visto più stabile. Per chi rientra nei limiti di età, è probabilmente la scelta migliore e più “umana” per avvicinarsi al Giappone senza bruciarsi subito.
Un’altra strada molto comune è quella del visto studentesco. Iscriversi a una scuola di lingua o a un’università giapponese permette di restare nel Paese per periodi più lunghi, spesso fino a due anni, con la possibilità di lavorare legalmente per un numero limitato di ore settimanali. È una soluzione scelta da molti europei e, curiosamente, riflette perfettamente il percorso che tanti giapponesi fanno in Italia, come la ragazza che ho conosciuto e che l’anno prossimo vivrà a Firenze per studiare. Il lato positivo è la possibilità di immergersi davvero nella lingua e nella cultura, ma i costi non sono trascurabili e la vita da studente in Giappone può essere mentalmente impegnativa.
Il vero punto di arrivo, per chi sogna di restare a lungo, è il visto lavorativo. Qui però il discorso si fa più complesso. Serve un’azienda giapponese disposta a fare da sponsor, una laurea o un’esperienza professionale equivalente e competenze spendibili sul mercato. I settori più accessibili restano quelli tecnici, come l’informatica e l’ingegneria, oppure l’insegnamento delle lingue. Senza una buona conoscenza del giapponese e senza un profilo altamente qualificato, trovare lavoro all’estero è estremamente difficile. È il punto in cui il Giappone mostra il suo lato più chiuso, non per ostilità, ma per una struttura sociale e lavorativa che privilegia percorsi molto definiti.
Esistono poi altre possibilità più particolari, come il visto per coniuge per chi sposa un cittadino giapponese, o visti legati all’apertura di un’attività o a profili altamente specializzati.
Dal punto di vista pratico, vivere in Giappone non è necessariamente proibitivo come spesso si pensa. Tokyo è costosa, ma gli affitti possono essere più abbordabili accettando spazi ridotti. Il cibo è di ottima qualità e sorprendentemente economico, i trasporti sono impeccabili anche se nel lungo periodo incidono sul budget, e il sistema sanitario, pur obbligatorio, è efficiente e relativamente accessibile. Il vero costo, spesso, non è economico ma psicologico. Adattarsi a una società che funziona perfettamente richiede disciplina, autocontrollo e una costante attenzione alle regole non scritte.
Durante il mio viaggio ho avuto la sensazione che il Giappone sia un luogo dove è facile vivere, ma più difficile sentirsi davvero a casa. Tutto è ordinato, sicuro, prevedibile, ma l’integrazione profonda resta rara. Anche dopo molti anni, uno straniero rimane tale. Ed è qui che tornano alla mente le storie dei giapponesi che vivono in Italia: spesso raccontano quanto trovino liberatoria la nostra spontaneità, il nostro caos, il nostro modo di stare insieme. Noi, invece, restiamo affascinati dalla loro efficienza. Forse perché ogni Paese appare perfetto quando lo si osserva da lontano.
Vale la pena provarci? La mia risposta è sì, ma con consapevolezza. Per chi ha meno di trent’anni, la Working Holiday Visa rappresenta un’occasione rara e preziosa. Non tanto per scappare, quanto per capire. Capire se il Giappone è solo un amore idealizzato o se può diventare, anche solo per un periodo, una vera casa. E come spesso accade, forse la verità non sta né nel sogno né nella disillusione, ma in quel punto intermedio dove le aspettative incontrano la realtà.
Inciso:
Piacere, sono Lorenzo!
Italianissimo, genovese, e da sempre appassionato del Giappone. Ho incontrato questa cultura per la prima volta attraverso il karate, grazie a una tradizione di famiglia di cui vi parlerò in futuro. Da bambino ho iniziato con anime e manga, e col tempo mi sono innamorato di un mondo che, però, ho capito presto di non dover idealizzare.
Alla fine ho avuto la fortuna di andarci di persona e di stringere amicizie con diversi giapponesi con cui mantengo ancora oggi rapporti regolari. Nel frattempo studio con calma la lingua e sento sempre più il desiderio di raccontarvi, attraverso vari episodi, un Paese affascinante e complesso, pieno di sfaccettature e contraddizioni.
È davvero il Paese perfetto?
O piuttosto un luogo dove è facile vivere, ma difficile respirare?
Forse la verità sta nel mezzo… ma in quale forma?
Scopritelo insieme a me in questo viaggio!
E, piccola curiosità: il protagonista del mio primo libro fantasy (Lathar) si chiama Hito (una parola giapponese…), mentre la protagonista del secondo (Lathar Zero) porta il nome Nagisa. Chissà cosa significherà?

