Vamp(yre) style: seduzione e potere oltre i secoli

di Maurizio Fierro

“Je poserai sur lui [l’homme] ma frêle et forte main; Et mes ongles, pareils aux ongles des harpies, Sauront jusqu’à son coeur se frayer un chemin. Comme un tout jeune oiseau qui tremble et qui palpite, J’arracherai ce coeur tout rouge de son sein, Et, pour rassasier ma bête favorite, Je le lui jetterai par terre avec dédain!”

Baudelaire, Les fleurs du mal




Susie Cave, moglie dell’icona rock e principe delle tenebre Nick Cave, ne ha creato un brand di moda esclusivo, The Vampire Wife, per esaltare una femminilità misteriosa e sensuale.

Per i 200 anni dalla nascita della maison di Louis Vitton, Nicolas Ghesquière, direttore creativo del womenswear di Lvmh, ha organizzato un gran ballo con protagoniste loro, seducenti vampiresse vestite di abiti con crinoline che avvicinano il ready to wear alla couture. «Mi piace la figura del vampiro che viaggia attraverso il tempo, adattandosi ai dress code dell’età in cui vive, mantenendo comunque un certo fascino del passato» dice Ghesquière, strizzando l’occhio alla moda gotica degli anni Novanta, a sua volta debitrice di certo gusto di epoca vittoriana, idealmente raffigurato dal look vampiresco di Madeleine Wallis per la House of  Paquin nel 1921, di cui Jeanne Paquin era la pionieristica stilista che contribuì a ristabilire il nero come elemento chic.

Stiamo parlando dello stile vamp, o vampiresco.

Ma quando nasce nel gergo comune il termine usato per indicare la femme fatale, dominatrice dell’uomo, bella e lussuriosa? La “vampira” dalla pelle diafana e gli occhi grandi, che succhia le energie vitali dell’uomo che si sottomette alla sua volontà ed al suo trascinante fascino, portandolo alla follia, alla perdizione e alla distruzione? E, in definitiva, l’idea che la donna troppo seducente resta sempre, immancabilmente mortifera fin dalla notte dei tempi? (Come Empusa, una delle cagne di Ecate nella mitologia greca, capace di assumere l’aspetto lascivo di una pericolosa seduttrice, succhiando agli uomini le forze vitali fino a portarli alla morte) 

Se nel 1886 lo psichiata Richard von Krafft-Ebing nel suo “Psychopathia Sexualis” definisce alcuni casi di vampirismo sessualizzandone la figura, caratterizzata da fascino ipnotizzante e profonda lascivia, e l’anno dopo (quello di “Dracula” di Bram Stoker) l’artista londinese Philip Burne-Jones immortala su tela Il Vampiro, raffigurando una donna intenta a succhiare l’energia vitale di un uomo, dipinto che inspirò l’omonima poesia di Rudyard Kipling del 1897, è all’alba del Novecento che l’identità vamp levita dalle brume della scena vittoriana per entrare nell’iconografia condivisa; e lo fa  grazie e attraverso il clamoroso successo popolare del cinema. 

E se la prima donna a trasferire su celluloide l’immagine della femmina crudele e distruttrice è Alice Hollister in “The Vampire” (1913), di Robert G. Vignola, è indiscutibilmente Theodosia Goodman a decretare ufficialmente la nascita della “Vamp”, interpretando il ruolo della  vampira nella pellicola “A fool there was” 1915 (in cui, per la prima volta nella storia del cinema, un’attrice bacia sulla bocca il suo compagno di scena, con una sensualità così feroce da evocare il bacio morso con cui i vampiri aspirano la forza vitale dalle loro vittime), e incarnando quel senso dark, oscuro per l’avventatezza e l’audacia, come la provocazione delle tenebre. Con i suoi capelli nero corvino, la pelle eburnea e il trucco molto carico e intenso, Theodosia Goodman affascina con una forza di attrazione che sembra mesmerizzare tutti gli uomini che vengono in contatto con lei, ammaliati dalla sua prorompente sensualità e spregiudicatezza. Una seduttrice esotica, che fa perdere il senno della ragione e che lascia credere di essere figlia di un artista francese e di una principessa mediorientale, di essere stata allattata con sangue di serpente e di essere cresciuta tra scheletri e ragnatele. Il suo pseudonimo è Theda Bara, anagramma di “arabh death“, che significa morte araba. 

Siamo in un’èra cinematografica pleistocenica, ma dalle parti degli studios già nascono le prime rivalità e contrapposizioni. La risposta alla Goodman è Louise Glaum, la vamp Mademoiselle Poppea di “The Toast of  Death” (1915), e in seguito nei panni della femme fatale in numerose pellicole. E non possono mancare all’appello le vamp europee, come Musidora (alias Jeanne Roques, ex-soubrette alle Folies Bergères e musa dei surrealisti), protagonista nel 1915 del film “Les Vampires”, dall’atmosfera onirica e perturbante, o come Pola Negri, pseudonimo dell’attrice polacca Barbara Apolonia Chałupiec, la Carmen di “Sangue gitano” (1918), del regista tedesco Ernst Lubitsch. 

È questo il momento in cui l’immagine della vamp si cristallizza nell’archivio visivo come noi lo conosciamo. Da allora, le vamp si riproducono per gemminazione, non solo nel mondo del cinema, ma anche della letteratura e, in seguito, della cultura pop. 

la Fosca di Iginio Ugo Trachetti, alcune eroine che troviamo nei romanzi di Gabriele D’Annunzio, la Salomè di Oscar Wilde (magistralmente interpretata a teatro da Lydia Borrelli, poi protagonista nel 1917 di “Rapsodia satanica”, di Nino Oxilia), la Lulù di Wedekind fino ad arrivare alla Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch, sono solo alcune delle donne avvenenti, appariscenti ed eccentriche, dalla pelle diafana e gli occhi grandi, che compaiono su carta, ognuna forse con un debito da scontare con la contessa vampira Mircalla Karnstein, protagonista della novella “Carmilla” (1872) di Joseph Sheridan Le Fanu, trasposta nel 1932 su grande schermo da Carl Theodor Dreyer nel suo “The Vampyr” (con un’altra famosa vamp, Rena Mandel, nei panni di Giséle), che, introducendo in contesti spesso profondamente onirici elementi di sessualità ed erotismo, definiscono l’immaginario vamp, femme fatale (da Greta Garbo a Marlene Dietrich, da Louise Brooks a Gloria Swanson e Marylin Monroe) che magari non dormono in una bara come è solita fare Sarah Bernhardt, ma che nel loro algido allure scolpisco un modello femminino che influenza la cultura popolare: dalle strisce dei fumetti di Charles Addams sul New Yorker negli anni Quaranta e Cinquanta fino in Carolyn Jones, la Morticia della serie televisiva della famiglia Addams, dalla Vampirella dell’omonimo fumetto al look gotico dell’incomparabile Maila Nurmi di Plan 9 from Outer Space” (1959), la Vampira dello stralunato film di Ed Wood, che si guadagna lo status di peggior film mai realizzato a Hollywood, e in seguito celebre presentatrice di film horror trasmessi in tv a tarda notte. 

Nel 1971, è l’attrice francese Delphine Seyrig a vestire i panni della baronessa Elizabeth Bathory, che, agli albori del Seicento, faceva bagni nel sangue di giovani fanciulle per mantenere la propria bellezza e giovinezza. La sua presenza scenica in “Daughters of Darkness”, con l’acconciatura dentellata anni Trenta, l’outfit in lamé e l’algido charme, è perfetta per evocare quella che è considerata la più sanguinosa serial killer della storia.

Nel 1983 spetta a Catherine Deneuve il ruolo di una vampira dominatrice in Miriam si sveglia a Mezzanotte”, tratto dal romanzo The Hunger” di Whitley Strieber, in una delle numerose contaminazione fra letteratura e cinema: nella prima scena del film, la goth band dei Bauhaus si esibisce nel singolo Bela Lugosi’s Dead”, plastica fusione fra moda, cinema e musica. Tre anni dopo la cantante Grace Jones è la vampira Katrina nella black comedy Vamp”, anticipatrice di un dress code vampirico che comincia a fare tendenza e che influenzerà la moda negli anni Novanta, poi perfettamente incarnato nel look gotico della bassista dei Sisters of Mercy Patricia Morrison, uno stile che in seguito non smetterà più di intrigare, come testimoniano le sfilate dress vamp delle maison durante le fashion week.

E oggi, chi è l’ultimate vamp? L’omonima protagonista bisex del videogioco Metal Gear, ideato da Hideo Kojima?

L’app Vamp creatrice di contenuti social e di community?

La modella eterea dalla pelle diafana che pubblicizza l’ultima linea di mascara e eyeliner  per uno sguardo intenso e provocante?

Oppure la drag queen Ivana Vamp, star del cooking show “Una vampata di gusto”, in onda su Food Network?

Vamp: femme fatale che conquista il centro dell’inquadratura e occupa la scena, con l’impulso a non subire, a porsi come tessitrice di un rapporto erotico dai tratti sinistri; creatrice di un proprio equilibrio, in cui al ricevere non corrisponde quasi mai il dare; dark lady che guarda dalla riva opposta del fiume della vita le donna fragile angelo del focolare domestico; femmina ribelle e concupiscente, moderna Lilith, (il cui nome in alcune traduzioni del Talmud viene tradotto come vampiro, e secondo i cabalisti medievali prima moglie di Adamo, in perenne contrasto col marito, perché rifiutava di obbedirgli e infine scappata dal Paradiso terrestre preferendo vivere con i demoni piuttosto che tornare con Adamo), che si oppone alla verginale madonna Maria.

Vamp, simbolo del femminile che non soccombe al maschile, e non una calunniosa caricatura vittima della società, una donna di successo mancata, le cui energie sono state nevroticamente deviate verso i salotti benpensanti, secondo certa retorica femminista, bensì, come sostiene Camille Paglia in “Sexual Personae: arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson” «una persona sessuale dotata di grandissima forza ipnotica che, laddove ogni rapporto sessuale è un rapporto di potere, un gioco di equilibri instabili, operando una sorta di drenaggio di energia maschile, afferma la sua naturalità femminile contrapposta all’ordine simbolico rappresentato dall’uomo.»

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