Economia dei genocidi: quando le aziende traggono profitto dalla morte di milioni di persone

Quando si parla di genocidi il pensiero corre immediatamente all’orrore dei massacri, al dolore delle vittime e al silenzio assordante della memoria. Ma c’è un’altra dimensione, spesso meno raccontata eppure fondamentale per comprendere a fondo queste tragedie: quella economica. Dietro ogni genocidio, infatti, non ci sono esclusivamente ideologie totalitarie e fanatismi etnici, ma anche interessi materiali, aziende che hanno tratto profitto e industrie che hanno trasformato la morte in affari. È una realtà dura da accettare, in quanto ci costringe a guardare al genocidio non solo come a un crimine politico, ma come a un sistema in cui l’economia diventa complice e beneficiaria.

Vediamo alcuni precedenti storici (ma anche contemporanei, contingenti) che ci permettono di capire meglio.


L’Olocausto e l’industria del Terzo Reich

 

L’esempio forse più noto è quello dell’Olocausto. La multinazionale chimica IG Farben, poi smembrata dopo la guerra nei gruppi Bayer, BASF e Hoechst, utilizzò il lavoro forzato di migliaia di deportati nei campi di concentramento e produsse il gas Zyklon B, impiegato nelle camere a gas. Aziende come Krupp e Siemens impiegarono a loro volta prigionieri come manodopera schiava nelle fabbriche di armamenti e apparecchiature elettriche. L’industria tessile Lodenfrey beneficiò dell’“arianizzazione”, ossia la confisca di imprese ebraiche a prezzi irrisori, e costruì la propria ricchezza anche sullo sfruttamento dei detenuti.

Questi esempi mostrano come lo sterminio non fu solo ideologia e follia omicida, ma anche (forse soprattutto?) un progetto economico che garantì profitti enormi a chi collaborò con il regime. La Shoah, in questo senso, divenne una macchina industriale della morte in cui politica e capitale procedevano di pari passo.

Alcuni esempi: 

  • IG Farben: un colosso chimico tedesco durante il Terzo Reich. IG Farben utilizzava lavoro forzato — inclusi prigionieri di Auschwitz — e produceva materiali chimici vitali per la macchina di guerra nazista, compresa la fornitura di Zyklon B, il gas usato nelle camere a gas. FONTE: Wikipedia

  • Degussa (via una sussidiaria di IG Farben), e la produzione e distribuzione di Zyklon B tramite la società Degesch. CONTE: Wikipedia

  • HASAG (Hugo Schneider AG): mensilmente sfruttava lavoro dei detenuti nei campi di concentramento, producendo armamenti e beni correlati. FONTE: Wikipedia

  • Lodenfrey: industria tessile che si avvantaggiava di lavoro coatto, “arianizzazione” di aziende di proprietari ebrei, sfruttamento dei prigionieri.

 

Il Ruanda e il ruolo degli affari

Anche il genocidio del 1994 in Ruanda, in cui in soli cento giorni furono massacrate quasi un milione di persone, dimostra quanto l’economia possa intrecciarsi con la violenza. Non solo le milizie a compiere gli eccidi: dietro di loro c’erano finanziatori, commercianti e imprenditori che importarono strumenti di morte, come i machete distribuiti in massa. L’economia del genocidio non terminò con la fine dei massacri: nelle regioni dei Grandi Laghi il controllo delle miniere e delle risorse naturali divenne la posta in gioco di nuove guerre e persecuzioni, che ancora oggi alimentano conflitti e sfruttamento. La ricchezza derivata dal coltan (utile per i microchip) dall’oro e dai diamanti si è spesso tradotta in sangue, il che rese e rende ancora l’economia un campo di battaglia tanto quanto le armi.

Anche qui, vediamo alcuni esempi più specifici: 

  • Félicien Kabuga, uno dei principali finanziatori del genocidio in Ruanda, importò machete in grandi quantità per le milizie, incanalando risorse economiche per l’omicidio di massa. FONTE: Council on Foreign Relations

  • Il ruolo delle imprese locali o gruppi economici nel finanziare o supportare logisticamente il genocidio, anche se non sempre documentato con la stessa trasparenza degli esempi nazisti.

  • Anche dopo la fine dell’orrore, le risorse naturali nella regione dei Grandi Laghi africani sono state coinvolte in conflitti che fanno eco al genocidio: il commercio di minerali, il controllo delle terre, l’esportazione di colture agricole, ecc., sono diventati leve economiche nella guerra, nelle persecuzioni e nei conflitti etnici.

 

L’economia dell’occupazione contemporanea

 

Un recente rapporto delle Nazioni Unite, “From economy of occupation to economy of genocide” del Relatore Speciale Francesca Albanese, denuncia che molte aziende sono coinvolte nel sostenere l’occupazione israeliana e il genocidio dei palesinesi: attività edilizie illegali, sfruttamento delle risorse idriche, demolizioni, forniture militari, tecnologie di sorveglianza sono solo alcuni esempi. 

Nel contesto palestinese, infatti, sembra che imprese private abbiano fornito macchinari per demolizioni, materiali per la costruzione di insediamenti e sistemi di sorveglianza tecnologica. Alcuni istituti bancari internazionali hanno finanziato aziende coinvolte in attività che contribuiscono a consolidare l’occupazione, trasformando la repressione in un affare. L’ONU ha parlato apertamente di “economia dell’occupazione”, sottolineando come la catena di approvvigionamento globale renda anche il consumatore finale un ingranaggio inconsapevole di questo meccanismo.

Come si genera profitto dai genocidi

In tutti questi esempi ciò che accomuna il meccanismo è la capacità del sistema economico di adattarsi alla logica dello sterminio. Le imprese ottengono manodopera a costo zero attraverso il lavoro forzato, si appropriano di beni confiscati, vendono strumenti di repressione, gestiscono la logistica, oppure sfruttano le risorse naturali di territori devastati. Il genocidio non è mai soltanto un fenomeno politico o militare: è sempre anche un affare, un business che conviene a qualcuno.

Meccanismi di profitto nei genocidi

Ecco dunque come le aziende possono trarre vantaggio:

  1. Produzione diretta di strumenti di morte – armi, gas, mezzi di trasporto per deportazioni, infrastrutture dei campi, ecc.

  2. Lavoro forzato / schiavitù – uso di prigionieri, detenuti, minoranze costrette a lavorare senza diritti o paga.

  3. Espropriazioni  – sottrazione di beni di minoranze perseguitate, aziende confiscate, proprietà rubate che migrano verso aziende compiacenti.

  4. Fornitura logistico‐infrastrutturale – aziende che costruiscono infrastrutture, demoliscono, forniscono mezzi, macchinari, trasporti o tecnologie che abilitano genocidi o pulizie etniche.

  5. Finanziamenti, investimenti, mercati di fornitura – banche, investor istituzionali, contratti governativi che finanziano indirettamente attività genocidarie.

  6. Ricavi da risorse naturali – attorno a zone di guerra/genocidio, il controllo delle risorse (terre, minerali, agricoltura) diventa una fonte di ricchezza per chi controlla militarmente o politicamente.

  7. Connivenza legale, silenzi, negazioni – assenza di trasparenza, lobbying, negazione, distruzione documenti, rifiuto di risarcimento o compensazione.

La responsabilità morale e civile

La giustizia internazionale, dal Tribunale di Norimberga fino al Tribunale penale per il Ruanda, ha provato (spesso in maniera inefficace o blanda) a colpire i responsabili politici e militari, ma raramente le aziende sono state processate. Molti casi si sono conclusi con risarcimenti simbolici o con un tardivo riconoscimento delle colpe. Eppure la complicità economica resta evidente e il senso civico ci ricorda che senza un’analisi profonda del legame tra economia e genocidio non si può parlare di vera giustizia.

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