All’arrivo di Cristoforo Colombo nel nuovo continente, i Nativi Americani esistevano da circa 35.000 anni. I progenitori erano giunti dalla Siberia attraverso lo stretto di Bering, che, per l’abbassamento delle acque degli oceani, a quei tempi si presentava come una sorta di ponte fra continenti. La migrazione dall’Asia all’America proseguì fino a quando lo stretto non venne nuovamente ricoperto dall’acqua. Arrivati al termine dell’ultima glaciazione, i nuovi abitanti, nomadi di razza asiatica, dovettero confrontarsi nei millenni che seguirono con una serie di rivoluzioni ambientali, che diedero origine a società umane molto diverse fra loro, e a un numero sterminato di lingue e idiomi e a usi e costumi. Distribuiti fino alla Terra del fuoco, lungo le praterie, nei deserti, nelle foreste e sulle montagne, gli indigeni vissero di caccia, pesca e di piante selvatiche, impegnati in un lungo processo di convivenza sociale e di creazione di un universo religioso.
All’origine si stima esistessero 15 milioni di indiani in America settentrionale prima dell’arrivo degli Europei. Diverse le culture nelle distinte regioni. Nei Grandi Laghi l’Old Copper Culture, che usò il rame per costruire armi, monili ed utensili. Nel New England la Red Paint People Culture, con elaborate necropoli per complessi cerimoniali. Nel Sud Ovest la Cultura del deserto, con gli Hohokam e i Mogollon, più a nord le culture dei Pueblos e degli Anazasi, agricoltori e pastori nonché grandi architetti di dimore in parte costruite sulle mesas ed in parte nei canyon, all’interno di cavità in dirupi scoscesi d’arenaria. Infine la Cultura dei templi dei Natchez, che si sviluppò nella valle del Mississippi.
Con l’arrivo degli spagnoli, dei francesi e degli inglesi la cultura dei Nativi subì mutamenti talvolta distruttivi, a causa dei singoli interessi dei colonizzatori. In ogni area geografica d’America, i conflitti storici portarono ad un vero e proprio massacro, talvolta giustificato dai bianchi Americani con il concetto di “destino manifesto”, ritenendosi predestinati a impadronirsi e governare – dopo la Rivoluzione Americana – il continente. Si arrivò all’annientamento sistematico di intere tribù, oggi oramai scomparse o estinte, nonché alla sistematica privazione di terre per arrivare ad una politica federale basata sulla creazione di Riserve Indiane. Tutto cominciò con Cristoforo Colombo, che diede al popolo incontrato al suo sbarco nell’isola di San Salvador il nome di Indios. “Quella gente è così docile e pacifica” scrisse Colombo al re e alla regina di Spagna, “Essi amano i loro vicini come se stessi, e i loro discorsi sono sempre gentili e accompagnati dal sorriso, e sebbene sia vero che sono nudi, tuttavia le loro maniere sono decorose”
Il popolo incontrato da Colombo si chiamava Taino. Questi indios erano pacifici e accolsero generosamente Colombo e i suoi uomini, offrendo loro doni e trattandoli con rispetto. Ciò fu interpretato come un segno di debolezza e remissione, sicché gli spagnoli ritennero di fare tutto quello che era necessario per far adottare ai nativi i costumi e le abitudini dell’uomo bianco. Gli indios non si opposero alla conversione tranne quando videro gli europei scorrazzare sulle proprie terre in cerca di oro e di pietre preziose. Gli spagnoli incendiarono i villaggi, rapirono centinaia di nativi e li imbarcarono alla volta dell’Europa per venderli come schiavi. Intere tribù furono distrutte e in meno di un decennio dal primo arrivo di Colombo migliaia di indios scomparvero, decimando la popolazione indigena. Lo stesso schema si ripeterà con l’arrivo degli inglesi in Virginia nel 1607: i Powhatan li accolsero con generosità, ottenendo in cambio saccheggi e distruzione, e in breve tempo gli ottomila Powhatan si ridussero a poco più di mille. Anche nel Massachusetts i nativi Pemaquid subirono lo stesso trattamento nel 1620, e così la tribù Mohican da parte degli olandesi nell’isola di Manhattan, e quella dei Pontiac dai francesi nella regione dei Grandi Laghi.
Il contatto con gli europei produsse uno stravolgimento nell’ecosistema indigeno. Separati per migliaia di anni dal resto del mondo, gli indiani non possedevano quelle difese immunitarie che avrebbero consentito loro di affrontare e superare malattie semplici come raffreddore e influenza. I nativi non vivevano a lungo: malnutrizione, anemia, artrite, osteoporosi, carie dentali, tubercolosi erano la norma, per cui le malattie infettive portate nel nuovo continente dagli europei furono letali. Ancor più delle armi e dell’alcol, sconosciuto ai nativi, poterono vaiolo, orecchioni, pertosse, varicella, morbillo e scarlattina, e gli effetti di questa invasione invisibile risultarono devastanti. La prima epidemia di vaiolo si sviluppò in Canada nel 1633 nelle regioni dell’odierno Ontario, in concomitanza con l’inizio della predicazione gesuita fra gli Uroni. Ulteriori concause che portarono della decimazione delle tribù furono carestie e malnutrizione. Le continue concessioni di grano fatte all’uomo bianco, e il sistematico sterminio dei bisonti da parte dei cacciatori europei, ebbero conseguenze nefaste per i nativi, specialmente per le tribù delle pianure. Tra il 1871 e il 1883, i coloni alla ricerca di nuovi spazi per l’agricoltura, i reparti dell’esercito americano e i cacciatori di pellicce distrussero le mandrie di bisonti delle Grandi pianure, portandole sull’orlo dell’estinzione. Ma allo sterminio sistematico contribuì soprattutto la costruzione della ferrovia Union Pacific, da parte della compagnia Union Pacific Railroad, nata per collegare la costa atlantica con l’oceano Pacifico. Decine di migliaia di operai, in prevalenza cinesi e irlandesi, furono impiegati alla costruzione di questa mastodontica ferrovia transcontinentale, che attraversava i territori indiani. I bisonti rappresentavano un ostacolo al lavoro degli operai, spesso le mandrie distruggevano miglia di binari, sicché la Union Pacific non si fece scrupolo ad assoldare bande di cacciatori per ucciderli, privando i nativi del loro principale elemento di sostentamento alimentare. Dei circa trenta milioni di bisonti presenti all’inizio del secolo, nel 1899 ne erano rimasti circa un migliaio.
Fra i primi decenni del ‘700 e la metà del secolo successivo, le tribù native dell’America del nord combatterono battaglie impari contro gli invasori armati prima di archibugi e poi di fucili, firmarono un trattato dopo l’altro cedendo porzioni sempre più estese di territorio fino a quando non restò più nulla da cedere. Nel 1830, Andrew Jackson, divenuto presidente degli Stati Uniti l’anno precedente, propose al Congresso che tutti i nativi venissero trasferiti verso ovest, oltre il Missisippi, garantendo le proprietà alle tribù. Le terre a est infatti non bastavano più alle frotte di coloni che sbarcavano dall’Europa, sicché si rendeva necessario creare un “territorio indiano a ovest”, un territorio selvaggio e inesplorato che, all’epoca, sembrava privo di interesse per il governo americano. A tal fine Jackson nominò un Commissario per gli Affari Indiani a capo del Bureau of Indian Affairs – braccio amministrativo del Governo Americano nelle questioni indiane – e sancì che nessun bianco avrebbe potuto stanziarsi in quei territori. Con l’Indian Removal Act, una delle pietre miliari più tragiche della storia degli indiani d’America, ebbe inizio una lungo percorso legislativo che procedette di pari passo con la continua erosione dei confini stabiliti, che furono progressivamente ridotti a causa della pressione dei esercitata dai colonizzatori bianchi.

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