Il sequestro e omicidio di Aldo Moro, avvenuto nella primavera del 1978, rappresenta uno degli eventi più drammatici, complessi e controversi della storia della Repubblica Italiana. In quei 55 giorni di prigionia, le Brigate Rosse misero sotto scacco lo Stato, mentre l’Italia intera assisteva impotente a un conflitto sotterraneo tra istituzioni, ideologie e apparati deviati. Il corpo di Moro, crivellato di colpi, venne ritrovato il 9 maggio in via Caetani, simbolicamente situata tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista: un messaggio potente, lucido, crudele.
Chi era Aldo Moro
Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e due volte presidente del Consiglio, era uno dei principali artefici del “compromesso storico”, una strategia che puntava all’ingresso del PCI di Enrico Berlinguer nell’area di governo. Una svolta epocale, che avrebbe potuto cambiare radicalmente l’assetto politico del Paese in piena Guerra Fredda. Per questo, Moro era considerato un bersaglio da molti: dalle Brigate Rosse, che lo vedevano come simbolo del potere borghese, a certi settori della destra atlantica, contrari a un’alleanza con i comunisti.
Il rapimento: 16 marzo 1978
Il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, le Brigate Rosse tendono un agguato sanguinoso: cinque uomini della scorta di Moro vengono assassinati. Lo statista viene rapito e rinchiuso in un covo brigatista, da dove inizia una prigionia fatta di lettere, interrogativi e silenzi inquietanti. Moro scrive appelli angosciati alla famiglia, al Papa, al suo partito. Chiede di trattare, di salvargli la vita. Ma la linea dello Stato, sostenuta da Andreotti, Cossiga e gran parte della DC, è la fermezza: “Lo Stato non tratta con i terroristi”.
I 55 giorni di silenzio, trattative mancate e ombre
Durante i 55 giorni di prigionia, l’Italia si spacca. C’è chi, come Bettino Craxi, invoca una trattativa. Altri sostengono che cedere significherebbe legittimare il terrorismo. Ma dietro le quinte si muove molto di più: servizi segreti deviati, logge massoniche, interessi internazionali, ambiguità e depistaggi. Il caso Moro diventa un nodo inestricabile tra geopolitica, lotta armata e strategia della tensione.
Le lettere di Moro, lucide e taglienti, sono una denuncia dolorosa dell’ipocrisia del potere. E vengono in parte censurate. Il partito lo considera “non più lucido”. Ma i documenti parlano chiaro: Moro è perfettamente consapevole del gioco mortale in cui è rimasto intrappolato.
Il ritrovamento del corpo: 9 maggio 1978
Il 9 maggio, dopo 55 giorni, le BR annunciano l’esecuzione. Il corpo di Aldo Moro viene trovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani. La scena è terribile. L’Italia è sotto shock. Lo stesso giorno, in Sicilia, viene assassinato anche Peppino Impastato, altra vittima del potere criminale. Un tragico simbolismo.
Le verità negate
Il caso Moro ha prodotto decine di inchieste, commissioni parlamentari, documentari e libri, ma molte domande restano ancora senza risposta. Dove si trovava davvero il covo delle BR? Perché i servizi segreti non intervennero? Chi sapeva e tacque? Perché fu deciso che Moro doveva morire? La verità ufficiale racconta una vicenda lineare. Quella reale è un dedalo di omissioni, complicità e segreti di Stato.
Il significato storico e politico
La morte di Moro segnò la fine del compromesso storico, l’irrigidimento della politica italiana e l’inizio di un lungo periodo di instabilità. Ma fu anche la sconfitta della politica umanista e dialogante, quella che cercava soluzioni condivise anche tra forze ideologicamente distanti.
Moro aveva previsto tutto. Aveva capito che il potere preferiva sacrificare un uomo piuttosto che aprire un varco alla trasformazione democratica. Il suo sacrificio resta una ferita aperta nel cuore della Repubblica.
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