Giappone360: approcciare il cibo

A CURA DI

I LIBRI DI LORENZO FOSCHI

Viaggiare in Giappone significa entrare in un universo gastronomico dove il cibo non è soltanto nutrimento, ma un’estensione della cultura, un rituale e spesso una forma di rispetto verso chi lo prepara e verso chi lo consuma. Durante il mio viaggio tra Tokyo, Kyoto, Osaka, Nara, Miyajima e perfino la mistica Kōya-san, ho avuto modo di vedere quanto mangiare in Giappone significhi imparare un modo di vivere, più che riempire la pancia.

La prima cosa che ho notato, soprattutto nei ristoranti più tradizionali, è il silenzio. Non un silenzio imposto, ma un silenzio naturale, rispettoso, quasi meditativo. In certi posti si entra, si ordina tramite una macchinetta automatica all’ingresso, ci si siede e si aspetta. Nessuno parla ad alta voce, nessuno chiama il cameriere urlando, nessuno fa rumore se non quello sottile delle ciotole e delle bacchette. È una filosofia diversa, che invita a concentrarsi davvero sul sapore, sul profumo, sulla temperatura del cibo. L’ho sentito particolarmente nei famosissimi locali di ramen dove si mangia da soli in piccoli cubicoli di legno: un’esperienza quasi ascetica. Ti siedi, chiudi la tendina, ti arriva il ramen fumante e in quel momento esisti solo tu, il brodo e il profumo che ti sale dal piatto. È curioso, perché il ramen è anche uno dei pochi casi in cui fare rumore mentre si mangia è accettato: il “sorso” rumoroso nel momento in cui si tirano su i noodles è visto come un segno di apprezzamento.

Il sushi, ovviamente, l’ho mangiato più volte. La cosa che mi ha colpito è che in Giappone non è poi così economico come molti credono. La qualità della materia prima è altissima, tutto è tagliato con precisione chirurgica e servito con un rispetto quasi sacrale. Una cosa che ho capito presto è che conviene puntare sul tonno: i tagli che ho provato erano incredibilmente freschi, più saporiti e più morbidi del salmone, che qui non ha la stessa centralità che gli diamo in Occidente. E alla fine, sì, spendi un po’ di più, ma la differenza la senti davvero.

Un’altra sorpresa è stata la carne. La carne di Kobe, in particolare, è qualcosa che quasi ti costringe a rimanere in silenzio anche se vorresti commentare ogni morso. Ha una consistenza burrosa, un sapore profondo, e capisci immediatamente perché sia considerata una delle carni migliori al mondo.

Ovviamente non è mancato lo street food. Gli yakitori li ho mangiati più volte, semplici e irresistibili, con quella glassa lucida che si caramella leggermente sulla brace. E poi i dolci: i dango, dolcetti locali di ogni tipo e una quantità imbarazzante di matcha latte. Il matcha latte è stata quasi una costante del viaggio: una bevanda fatta con matcha, il tè verde in polvere usato nella cerimonia del tè, unito al latte caldo o freddo e un tocco di dolcezza. Ha un gusto intenso, erbaceo, molto diverso dal tè verde europeo, ma incredibilmente confortante.

Tra le esperienze più particolari ci sono state senza dubbio le ostriche di Miyajima, enormi e carnose, quasi simboliche dell’isola. Le ho mangiate tra i cervi e i torii, ed è stato uno di quei momenti in cui il cibo e il luogo si fondono in un’unica fotografia perfetta. Non posso non citare poi la cena buddhista a Kōya-san, completamente vegetariana. È stato uno dei pasti più sorprendenti del viaggio. Piccole porzioni studiate nei minimi dettagli, tofu preparato in modi che non avevo mai provato, alghe, zuppe leggere, radici, sesamo. Una cucina essenziale e silenziosa, che riflette perfettamente la spiritualità del luogo.

E poi c’è Osaka, dove abbiamo cercato apposta un ristorante di okonomiyaki con recensioni basse, quasi una sfida alla logica del turista occidentale che vive di stelline e punteggi. E invece è stato fantastico. L’okonomiyaki era buonissimo, pieno, saporito, cucinato davanti a noi con una disinvoltura totale. A volte l’autenticità è nascosta proprio nei posti che non cercano di piacere, quelli che continuano a fare le cose “alla loro maniera” senza preoccuparsi di chi passa.

Ripensando a tutto, mi rendo conto che in Giappone il cibo ti educa. Ti insegna a rallentare, a osservare, ad ascoltare. Ti fa capire che ogni ingrediente ha una storia, che ogni piatto è costruito con una precisione che spesso non vediamo altrove. Mangiare in Giappone significa imparare qualcosa, sempre: da un ramen sorseggiato in solitudine a un okonomiyaki cucinato in un localetto di Osaka, da un pezzo di tonno perfetto a un matcha latte bevuto camminando tra i templi.

Se c’è un modo per capire davvero questo paese, credo sia proprio attraverso il cibo. E forse, a piccoli bocconi, il Giappone riesce pure a cambiarti un po’.

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