Hanno ucciso l’uomo ragno, inno di una generazione

A dodici anni come quasi tutte le coetanee ero fan assidua degli 883, e innamorata di Max Pezzali. 

Si facevano cose stupide. Entrare con degli amici in un albergo abbandonato passando per una finestra rotta, trovare gli elenchi telefonici di tutte le città, cercare Pavia, trovare il fiorista Pezzali e da una cabina telefonica chiamare: «C’è Max?». E di là, sua madre, con infinita pazienza: «No, Max non c’è…».

E dunque impossibile essere imparziali, nonostante siano passati trent’anni, verso una serie tv che parla di loro, gli 883.

Se è vero che i fan sono i più assidui difensori dei loro beniamini, certo sono anche i più critici verso chi tenta di riprodurne la vita e la carriera. E infatti ero indecisa se vederla, questa serie che porta il nome della loro hit (Hanno ucciso l’uomo ragno), temendo una delusione. «Sarà zuccherosa», paventava qualcuno.

Invece è bastato il trailer, un paio di battute, e ogni mia resistenza è sparita, e sono stata rapita e portata di colpo al 1990.  


Prima cosa da dire: questa non è una serie, è un inno a una generazione.  

Molte delle cose che hanno fatto Max e Mauro le abbiamo fatte tutti. Alcune anche per loro.

L’episodio surreale dei due che una sera vanno a cercare un rospo sulla riva del fiume come alternativa a una sostanza stupefacente da dare a un disc jokey per rabbonirlo, chissà perché mi ha fatto ripensare a quell’estate, all’hotel abbandonato, al cercare il suo numero di telefono tra elenchi polverosi. A tutte le cose stupide che facevamo, proprio per quelli che erano i nostri idoli.

Loro hanno creato un sogno. Quello che a un certo punto, in un momento malinconico, dopo il loro litigio Mauro sembra aver perso. Così per un po’, una manciata di anni, per noi quel sogno sono stati loro.


La serie tv ha svariati pregi, di quelli che appartengono solo alla miglior commedia agrodolce italiana.

Bella la fotografia degli anni Novanta, le strade di città con le vecchie auto targate Pv, la riva del Ticino. Lo zaino Invicta, le canzoni a nastro di quegli anni come colonna sonora.

Splendida la prima inquadratura di Max e Mauro insieme, a scuola, con la telecamera che da Max allarga verso il compagno: «Un disegno complicatissimo che voleva che tu arrivassi su quel banco, su quella sedia».

Emozionante il flashforward quando i due accendono per la prima volta l’impianto e di colpo la scena slitta alla vittoria del Festivalbar, e nella sigla finale la voce di Max attore che canta Nord sud ovest est si fonde con quella del vero Max.

E poi il ritorno con il furgone da Milano dopo l’incontro con Claudio Cecchetto.

«Quando diceva che “Non me la menare” la butta fuori. Fuori intendeva… in radio?».

«Io non ci ho capito un cazzo».

Gli 883 siamo noi. Noi che ci sentiamo fuori posto, noi che siamo sempre un passo indietro, noi che a quel sogno realizzato forse non ci arriveremo mai. Perché è l’aspettativa del sogno quella che ci tiene in vita. Anche a costo di passare il segno: «Ora, Max, il nostro motto deve essere: dignità zero!».

Questa serie ci ha mostrato che loro, il nostro personale “sei un mito”, non erano poi diversi da noi. Ci ha detto: gli 883 erano voi, ecco perché vi piacevano così tanto.

Ma Hanno ucciso l’uomo ragno piace anche ai più giovani, a chi gli anni Novanta non li ha vissuti. Perché certe cose sono per sempre, come l’idea di un’amicizia che duri per la vita.

Alcuni episodi sono più leggeri, in altri affiora l’inevitabile nostalgia. Nel vedere le puntate un po’ abbiamo riso e un po’ ci siamo commossi, un po’ abbiamo cantato e un po’ abbiamo pensato: “Anche noi”. Perché lì davanti, come una cassetta che si riavvolge, sono scorsi gli anni. Quelli di provincia, tutti amici e motorino, che si sa non tornano più.

E poi il riscatto di Mauro Repetto, che per noi era solo “quello che balla”, personaggio di spalla e marginale di difficile interpretazione, e si è rivelato invece, scoperta inaudita, l’anima di quel duo. «Se io sono qua – dice Max – è perché tu mi hai fatto credere che potevo starci».

Una parentesi sugli attori, giovanissimi e poco più che esordienti, che hanno fatto un’ottima interpretazione;  semplicemente, non ci si accorge che stanno recitando. Per tutto il tempo, vige la sospensione dell’incredulità. Come se quella storia la stessero vivendo loro stessi e gli anni Novanta fossero il presente.

Il regista Sydney Sibilia, classe 1981, ha realizzato un’opera semplice eppure grandiosa. Si perdona qualche sbavatura, un Fiorello poco “Fiorello”, alcune performance secondarie migliorabili, a volte accenti un po’ forzati. Perché in fondo ha fatto emergere tutto l’amore che abbiamo provato in quegli anni verso una band che tanto parlava di noi. E tutto l’amore che ancora proviamo verso quegli anni lì, incredibili, semplici, tanto nostri.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Consenso ai cookie con Real Cookie Banner