Di Francesca Redolfi
«Be’, se ha tutti quegli anni allora sarebbe il momento di cambiarla…». Con questa frase mi ha congedato l’azienda a cui mi ero rivolta per far riparare la cerniera di una federa. Una federa molto bella, tenuta con cura, che però aveva ceduto dopo svariati tentativi di riparazioni fai-da-te. Anziché cambiarla, avevo provato con la sarta e poi con la ditta produttrice. Che infine l’aveva sistemata. Pur dicendomi che sarebbe stato meglio acquistarne una nuova, non perché questa fosse usurata, ma semplicemente un po’ vetusta per gli standard odierni. Ho ringraziato e sono andata via con la mia vecchia federa riparata.
Mentre tornavo mi sono trovata a pensare a quanto ci ostiniamo a tenere le cose, ad aggiustarle anche se sono rotte.
Siamo forse l’ultima generazione che lo fa. Siamo i figli delle toppe alle ginocchia, quelle di colore sempre diverso dai pantaloni, portate con un po’ di imbarazzo ma non troppo perché le avevamo tutti. Tutti scivolavamo sui pavimenti lustrati con la cera, tutti ci arrampicavamo sugli alberi, giocavamo tra terra e campi. Lasciavamo buchi sui vestiti all’altezza di ginocchia e gomiti come orgogliose ferite di guerra, prova concreta di quel nostro modo felice di giocare. Di vivere.
Solo più avanti sarebbero arrivati gli stickers da stirare al posto delle toppe, e allora ci sembrò un altro mondo, guardavamo quei colori brillanti come se impreziosissero i vestiti, come fossero gioielli scelti apposta anziché messi lì per cercare di salvare il salvabile.
Siamo quelli che usano ancora la colla per la suola di una scarpa, che prima di cambiare il cellulare con lo schermo rotto lo sfruttano ancora per anni anche se si fa fatica a digitare sulla tastiera. Lo facciamo per un senso del risparmio, forse sobrietà, che ci insegnarono i nostri genitori, noi figli dei figli di chi ha fatto la guerra e ci ha inculcato il senso di non buttare mai nulla. O un po’ lo facciamo perché in fondo ci affezioniamo agli oggetti, quasi possedessero un’anima. Anche se forse l’unica anima che possiedono è la nostra. Per questo ripariamo cerniere. Per questo non vogliamo cambiarli. Facciamo fatica a separarcene.
Loro sono tracce di quello che siamo stati. I pantaloni che lasciamo in fondo all’armadio per anni, solo perché loro c’erano il giorno in cui ci siamo laureati. La prima tutina che con cura infilammo a nostra figlia, taglia zero mesi. La maglietta che indossavamo quando incontrammo lui la prima volta. La boccetta vuota del profumo di quel giorno. A volte biglietti, scontrini, documenti di viaggio. Conserviamo quelle cose come se avessero il potere di riportarci lì. Di farci tornare per un istante a chi eravamo allora.
I ricordi si nutrono di oggetti. Con quegli oggetti abbiamo talvolta un rapporto altalenante, un equilibrio precario che va dall’arte dello sbarazzo di Marie Kondo alla tendenza all’accumulo.
Poi talvolta accade che compiamo l’atto più doloroso. Ce ne separiamo. A volte lo facciamo con criterio, altre no. Come se di colpo sentissimo la necessità di recidere.
Quando lasciai la casa dei miei genitori, decisi di fare un po’ di pulizie e di buttare qualcosa. Feci una drastica selezione, e tra le altre cose gettai via dei quaderni. Quaderni fitti, pieni di parole e cose, di quelli che erano gli anni della mia adolescenza. Un diario durato almeno un lustro. Quando li portai in discarica e li vidi precipitare nel contenitore, in quell’istante esatto, mi dissi: perché? Perché l’ho fatto? Avrei voluto tornare indietro, recuperare in fretta quelle parole, riprendere quello che ero, che ero stata.
Non fu possibile, e i quaderni, con le loro frasi scritte impugnando forte la penna, parole leggere o tristi, pesanti o dolci, rimasero nel container.
Non sempre gettare via è un bene. A volte riparare, tenere, è ciò che ci dona senso. Siano essi oggetti, situazioni, sentimenti. Persone.
E questo auguro a ciascuno di voi in questi lievi giorni di autunno. Di riparare le cose quando possibile. Di lasciarle andare quando sono irrimediabilmente rotte. Di conservare ciò che è davvero importante. Ma soprattutto, di saperlo riconoscere.
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- Francesca Redolfi
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