Madre buona, madre cattiva: la figura della madre in letteratura

Lei, mia madre

 

La madre perfetta non esiste. Alle soglie del XXI secolo, questa consapevolezza dovrebbe sembrarci scontata, un’affermazione a tratti banale, eppure non è insolito trovare all’interno dell’immaginario collettivo esempi sempreverdi di madri esemplari e impeccabili, che riescono ad assolvere al duplice compito di educatrici e badanti con un’efficienza quasi robotica.

Di contro, la letteratura è piena di esempi di pessime madri, ideate da autori illustri, che hanno permeato l’immaginario culturale occidentale.

Madre buona, madre cattiva

La letteratura e l’arte sembrano impegnati in una costante lotta che pone queste due figure in una situazione di scontro perpetuo; da un lato la cattiva madre, che antepone i suoi bisogni e le sue aspirazioni a quelle di chiunque altro, figli in primis. Un esempio estremo che riconduce i lettori a questa figura matrigna, maligna e maledetta (le tre M, una triade tossica e pregna di moralismo) è ovviamente Medea, figura pre-mitologica ormai passata agli annali, alla quale milioni di scrittori si sono rifatti nelle loro opere. Strega e assassina, Medea compie l’Atto più grave che un essere umano possa commettere: la barbara uccisione della propria progenie. Per quanto la critica letteraria moderna si stia sforzando di riempire Medea di complessità e sfaccettature sempre nuove, in un maldestro tentativo di riabilitare le sue azioni, questo personaggio continua a rappresentare tutto ciò che non deve essere una madre, e le maledizioni che cadranno sul suo capo ne sono la prova lampante.

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All’estremo opposto c’è il modello al quale la letteratura sette-ottocentesca ci ha abituati ad aspirare, quello della madre esemplare, che arriva a sacrificare la sua vita per il benessere e la salvezza dei figli. Un modello altrettanto moralistico, se non di più, che vede nella madre il triplice ruolo di santa, martire e angelo del focolare, e il suo esempio forse più significativo è la Fantine del romanzo I miserabili (Victor Hugo, 1862). 

La storia di Fantine si inserisce in quella tendenza tutta ottocentesca che vede autori uomini intellettualmente impegnati ad auto-compiacersi, per non dire masturbarsi, sull’immagine di donne completamente vittime del destino, degli uomini e della sfortuna. Ma soprattutto degli uomini. Uno sguardo morboso sulle sfortune di personaggi femminili e sulle loro sofferenze, che avevano il duplice scopo di educare le donne a immolarsi alle avversità ma anche a portarle alla catarsi dei sentimenti, attraverso il dolore vissuto da loro simili per interposta persona.

Fantine è giovanissima quando viene sedotta e messa incinta da un suo (si presume) coetaneo, che non si farà scrupoli ad abbandonarla al suo triste destino. Nell’800, una ragazza madre aveva sostanzialmente due alternative: la prostituzione o il suicidio. Nessuno avrebbe offerto un lavoro onesto a una donna perduta; per questo motivo Fantine affida la piccola Cosette, frutto del suo amore al di fuori del matrimonio, a dei locandieri e va in città per lavorare, stando bene attenta a non rivelare a nessuno la sua figlia segreta. Segreto che viene ben presto scoperto, portando Fantine al licenziamento in tronco da parte di Jean Valjean. Disoccupata e sola al mondo, Fantine deve comunque trovare il modo per mandare i soldi a sua figlia, soldi senza i quali la piccola sarebbe abbandonata a un destino peggiore dell’essere lasciata insieme ai disonesti gestori di una locanda di dubbia reputazione. L’unica scelta di Fantine è diventare una prostituta, fatto che la condurrà velocemente alla morte.

Questo modello di madre, che si sacrifica in tutto e per tutto per i figli, rappresenta il polo opposto a quello in cui viene posizionata Medea, ed ecco allora che dal male supremo rappresentato dalla madre assassina si passa all’idea di madre-angelo, disposta a tutto pur di garantire alla progenie un futuro, anche alla morte e all’annullamento di sé.

E nel mezzo cosa c’è?

Sono pochi gli esempi di madri con personalità sfaccettate, almeno in letteratura, soprattutto nella narrativa del passato. Questo perché, come sempre, la donna è la destinataria di due grandi ingiustizie: la prima risiede nel fatto che per millenni è stata partorita dalla fantasia e dall’immaginazione morbosa e moralista degli uomini, la seconda è che la società ha sempre sentito il bisogno di incasellare la figura femminile in uno stereotipo, non importa se negativo o positivo.

Solo nell’800 le prime scrittrici hanno timidamente cominciato a esprimere se stesse attraverso la narrativa, creando figure di madri sfaccettate e ambivalenti, né buone né cattive, semplicemente umane. Basti pensare a Jane Austen e al suo Pride and Prejudice, dove la figura di Mrs. Bennett appare sì sciocca e vanesia, ma anche sinceramente preoccupata per le proprie figlie e di certo più partecipe alla vita familiare del suo schivo consorte, così impegnato a schernire il resto del mondo (famiglia compresa) da curarsi poco o nulla del destino precario delle sue cinque figlie.

Tra tutti questi personaggi e scrittori, una cosa è certa: dipingere l’universo femminile in maniera autentica è sempre risultato più ostico rispetto al creare personaggi maschili efficaci e ben costruiti, e lo è sia nel mondo del romance contemporaneo che della narrativa generale. Verrà mai il giorno in cui le madri saranno finalmente tratteggiate in maniera verosimile?

 

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