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Masterclass Vita d’Altri: episodio cinque

In collaborazione con Cappelli a punta Racconto di Anastasia Morale Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto <<No, no. Aspetta, devi piegarlo così…>> Nonno Nino prese la pagina della cronaca nera e fece una magia, come quando sparivano le carte siciliane. Era anche detto Ninuzzo, ma a noi bambini era vietato chiamarlo così. <<Come mi sta?>> <<Grande,>> rispose <<Ma è meglio così, altrimenti la carta si strapperebbe.>> <<edi che alla mamma piacerà?>> <<Dovresti chiederlo a lei. Quand’è che ti vengono a prendere?>> <<Non lo so, Papà ha detto che in ospedale si perde sempre tempo.>> <<Mmmm…>> mugugnò, concentrato a fabbricare un altro cappellino. <<Quello è per Davide?>> <<No. Gli ho già detto che se ne vuole uno deve farselo da solo.>> Guardai la sedia su cui avrebbe dovuto sedersi Davide, poi verso la porta della cucina, da cui proveniva il brusio della televisione. Ero convinta che fuori in balcone si stesse meglio. Di sicuro lo preferivo al microclima tropicale che doveva esserci nell’altra stanza. Noi occupavamo l’unico spazietto lasciato libero dalle piante della nonna. Erano tutte verdi, con foglie molto grandi. Non c’erano fiori, in estate non ce n’erano mai. Posai entrambe le mani sul tavolino di plastica, mentre Internacional diventava nacional. <<Ma io non l’ho fatto da sola.>> <<Sì invece. Guarda la punta.>> Mi tolsi il cappello e lo misi sul tavolo, come una barca in secca. Se fatte con la carta, cappelli e barchette si somigliavano molto. <<È un po’ schiacciata,>> borbottai, come se dirlo a bassa voce potesse cancellare il mio errore. <<Perché era il primo. Tocca qua.>> <<Punge! È perché ne hai fatti tanti?>> <<Non alla tua età, ma con la pensione ho molto tempo libero. Sai che significa?>> <<Che non vai più a lavorare.>> <<Brava.>> <<Per questo non vuoi farne uno per Davide?>> <<Cosa?>> <<Il cappello. Se lo facessi tu pungerebbe, mentre se lo facesse lui la punta sarebbe un po’ schiacciata.>> Nonno Nino si grattò il naso; sembrava il becco di un gufo, lungo e un po’ ricurvo. Anche i capelli grigiastri e folti me ne ricordavano uno, di quelli smemorati e spennacchiati che si vedevano nei cartoni. Papà diceva che era colpa del cappello da detective che metteva per fare la sua passeggiata mattutina; non permetteva ai capelli di respirare. Aveva senso. <<Sì, perché si è arreso prima. O forse perché si annoiava.>> <<Ma non gli verrà mai una punta che punge, se non fa quelle schiacciate.>> <<Infatti.>> <<E se Davide si mettesse a piangere?>> <<Gli servirebbe da lezione; non puoi far rinsecchire la pianta e pretendere di prenderne i frutti.>> Aggrottai la fronte e mi rimisi il cappello. Il nonno aveva detto una cosa vera, ma non vedevo il legame tra le piante e i cappellini. In ogni caso, l’idea di Davide che si metteva a piangere non mi turbava affatto. Capitava spesso, anche se lui era più grande di me, e i grandi non piangevano mai davanti ai più piccoli. <<Io piango quando non mi vengono gli esercizi di matematica.>> <<Ti stai impegnando, almeno?>> <<Ci provo, ma la maestra mi fa sempre togliere il libro. Dice che sono troppo lenta.>> <<Mmmm… vorrei tanto parlarci io con questa…>> <<Antonio, ricorda l’undicesimo comandamento.>> Nonna Lina apparve come un fantasma, nonostante le infradito di gomma. Indossava una delle sue vesti svolazzanti a fiori, lunga fino al ginocchio. Era l’unica a chiamare il nonno così – una cosa da coppia, forse? – ed era anche l’unica a usare quel modo di dire così bizzarro. A quanto diceva Papà, significava non sono affari tuoi. All’incirca. <<Gioia, non ti avevo sentita. Sai dov’è Davide?>> <<Di là a guardare la TV,>> rispose seccamente. <<La picciridda mi stava giusto dicendo che…>> <<Ho sentito, non pensarci neanche.>> <<Ma… Se Vanessa non può… Insomma…>> mormorò il nonno, lanciandomi un’occhiata neanche tanto furtiva. <<Allora ci penserà Lorenzo, quando potrà. Mi sembra che anche lui abbia una testa e due mani, no?>> Lui fece una faccia strana e si mise a borbottare tra sé e sé, come l’acqua prima di calare la pasta. La nonna strinse gli occhi dietro le lenti tonde e spesse degli occhiali. <<Cos’è che hai detto?>> <<Va bene, come vuoi tu, Gioia.>> <<Mmmm… Mi era sembrato.>> A quel punto un forte scricchiolio proveniente dal corridoio rimbombò per tutta casa, subito seguito da un clangore metallico e una serie di passi pesanti e strascicati. <<È permesso?>> <<Enzo, di qua!>> Quando spuntò, mio padre mi sembrò più vecchio dei nonni. La visiera consumata del berretto della Marina Militare proiettava un’ombra sugli occhi scavati. Al dito della fede portava anche l’anello delle chiavi di casa nostra, impugnandole come se stesse per aprire la porta. Baciò la nonna sulla guancia, poi si avvicinò e mi diede una carezza sulla testa, ammaccando il cappellino. Non dissi niente, per via del suo sorriso disegnato male. <<E Vanessa?>> chiese la nonna. Nonno Nino si era ammutolito di colpo, ma aveva preso a tamburellare rumorosamente le dita sul tavolino. Con la coda dell’occhio vidi il suo piede fare su e giù, spingendo un pedale immaginario. <<Perde tempo,>> rispose Papà frettolosamente. Poi aggiunse: <<Sta aspettando i risultati.>> Infine mi guardò e mi diede un’altra carezza. <<Dai, la mamma ci aspetta.>> Più tardi, nell’ingresso, lasciai che Papà mi aiutasse a rimettere lo zainetto in spalla, anche se non ne avevo bisogno. Il nonno si grattò di nuovo il naso da gufo, poi mi diede un buffetto sul mento. <<Ricordati cosa ci siamo detti.>> <<Certo,>> risposi <<La prossima volta, facciamo altri cappelli di carta?>> <<Se vuoi. Oppure, potrei insegnarti a giocare a Scopa, che dici?>> Ci pensai un attimo. <<Dipende: barerai come hai fatto a Capodanno?>> La nonna non gli diede il tempo di rispondere. <<Undicesimo comandamento.>> Clicca sull’immagine per ingrandire IL MAGAZINE storia 06.01.23 Nacque a Torino la prima collana di libri economici d’Italia Spesso, i lettori si lamentano del prezzo troppo alto

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Masterclass Vita d’Altri: episodio quattro

In collaborazione con Briciole di vita Racconto di Michela Aiello Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Le persone perdono un sacco di cose. Perdono le chiavi di casa, il portafogli, il cellulare… Perdono borse, sciarpe, guanti, cappelli, giacche, spille, anelli, bracciali. Perdono quaderni, penne, matite e orologi, perdono casa, lavoro, amore, sogni, speranze e a volte persino se stessi. Mi sono sempre chiesta se si tratti di semplice sbadataggine o se siano proprio quegli oggetti a volerci lasciare. Un po’ come con le persone, non sai mai se sei tu che le allontani o loro che se ne vanno. Se potessi, aprirei un negozio di oggetti dimenticati e lo chiamerei “la casa del ritrovo”. Nel mio negozio verrebbero raccolti tutti gli oggetti abbandonati sulle panchine dei parchi, tra i banchi di scuola, in metropolitana o sul bus, in questo modo, chiunque perda un oggetto saprebbe sempre dove ritrovarlo. Perché la cosa peggiore di perdere qualcosa è che non sai quando o se mai riuscirai a ritrovarla. Cenerentola, per esempio, perse addirittura una scarpa e fu il principe a setacciare ogni angolo del regno per restituirgliela e poi vivere felici e contenti. Inoltre, nel mio negozio non si farebbero consegne a domicilio. A lavoro ho creato una scatola per gli oggetti smarriti che teniamo sempre all’ingresso. Non è come un vero e proprio negozio ma ha quattro pareti di cartone e basta a contenere tutto quello che trovo in giro. Mi piace pensare che quegli oggetti abbiano un posto in cui stare come se, in realtà, non fossero mai stati persi. Certe sere, prima che finisca il mio turno, rovisto tra gli oggetti di quella scatola e provo a immaginare o ricordare il nome, o il volto, di chi per primo li ha posseduti. Uno degli oggetti che solletica di più la mia fantasia è un paio di occhiali con una sola asticella. Mi chiedo come si potessero indossare. Ricordo di aver visto un’anziana signora portare quella montatura mentre era intenta a leggere un piccolo libro scritto con caratteri piccolissimi e mi sembra ancora di vedere quegli occhiali barcollare tra un orecchio e l’altro. Quando è andata via ho trovato i suoi occhiali, lei non è più tornata a cercarli. Forse in un mondo in cui tutti gli occhiali hanno una sola asticella tutti guarderebbero con sospetto chi porta degli occhiali simmetrici. Una volta anche mio nonno ruppe gli occhiali e per ben due mesi non volle ripararli, diceva di sentirsi speciale con una lente rotta. Fu proprio quel giorno che mi insegnò a giocare a scacchi e da quel momento anche io iniziai a desiderare degli occhiali con una lente rotta. Forse perché pensavo che con quelli avrei finalmente urlato “scacco matto!” oppure perché in quel modo, anche io, mi sarei sentita speciale. Nella scatola c’è una bambola di stoffa, con i capelli castani e il vestito verde, che sta lì da mesi. Nessuno è venuto a cercarla e a guardarla mi fa anche un po’ pena. Deve essere stato brutto passare dalla cameretta di una bambina a una scatola di cartone. Magari prima aveva una casetta tutta per sé e ora ha quattro pareti marroni. Chissà a chi apparteneva. Anche io avevo una bambola, che si chiamava Emma, poi un giorno la persi al parco-giochi e fu il giorno più brutto che avessi mai vissuto in quattro anni di vita. Mi regalarono altre bambole ma nessuna era come Emma. Per un periodo la scatola aveva ospitato un bel bracciale d’argento, o d’oro bianco, non me ne intendo molto. Ammetto di averlo provato un paio di volte ma non era bello come i gioielli della mamma. Mi piaceva prendere le sue cose, forse perché erano tanto diverse dalle mie collane fatte con la pasta e le perline di legno. E mi sentivo proprio elegante con i maccheroni rigati e le perle! Il bracciale non restò a lungo nella scatola perché una ragazza con gli occhi scuri e i capelli scurissimi venne subito a cercarlo. Era un’insegnante e quel bracciale era un oggetto di famiglia, era talmente felice di averlo trovato che quasi piangeva. Nella scatola c’è pure la fotografia di un paesaggio, una di quelle con l’orizzonte storto e un cartello stradale in primo piano. Forse chi l’aveva scattata era stato attirato da un particolare impercettibile agli occhi di un normale spettatore. Avevo una zia che camminava sempre con la macchina fotografica in mano. Fotografava gli oggetti più strambi, la gamba di un tavolino da tè, un bicchiere sul tavolo di un ristorante, un orologio fermo, una bottiglia di vetro rotta. Li definiva “briciole di vita” e aveva riempito album interi con queste fotografie. Una volta le dissi di voler imparare a raccogliere le “briciole di vita” di cui parlava tanto e lei rispose che bisognava solo ascoltare gli oggetti. Io passai una settimana in attesa che qualcosa mi parlasse ma non ottenni risposta né dal tostapane, né dalla lampada, né dalla sedia che avevo deciso di interrogare. Poi rinunciai. Una volta, invece, ho trovato, per terra un bigliettino con una bella frase scritta sopra. Diceva: “l’amore è una battaglia senza scudi” e credo fosse uno di quei biglietti che si trovano all’interno di un biscotto della fortuna. L’ho raccolto perché mi ha fatto sorridere. Il ragazzino che mi piaceva alle medie mi aveva mollata con un bigliettino di dimensioni poco più grandi con scritto: “l’amore è per vecchi e io ho 12 anni”. Era la prima volta che un ragazzo mi scriveva un biglietto. E mentre raccoglievo quel pezzettino di carta dal pavimento ho pensato che fosse qualcosa di insolito perché noi non vendiamo biscotti della fortuna. Abbiamo caramelle gommose, cioccolato, liquirizia, chewing-gum, marshmallow, zucchero filato e dolciumi colorati che non hanno nemmeno un nome, ma non biscotti della fortuna. Mario, che è il proprietario, dice che vendere i biscotti della fortuna

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Masterclass Vita d’Altri: episodio tre

In collaborazione con G di Giulia Racconto di Claudia Lombardo Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto In una bella e calda giornata di luglio la mia mamma decise di mettermi al mondo, facendomi il regalo più bello che potessi desiderare: nonna Giulia. E nonostante mi tenne entro la pancia per ben nove mesi, non riuscì a conoscermi. Per anni il mio umore si trasformò in un’altalena che andava su e giù troppo velocemente. Riuscivo a incontrarla solo la notte, dentro sogni troppo confusi e maledettamente reali. La nonna sapeva certamente cosa frullava nella mia testa. Con il tempo si trasformò in una scatola magica: era mamma, papà, sorella e amica in una persona sola. Lo sforzo che fece per crescermi lo capisco solo ora e a volte vorrei tornare indietro per guardare con occhi diversi la vita vissuta insieme a lei. Ma la mia mente è un aereo sempre in aria che fluttua leggero in mezzo ai ricordi. Il regalo più bello della mia infanzia che ancora oggi conservo è un peluche a forma di coniglio. Ero una bambina innamorata degli animali e quindi facile da accontentare. Quando la nonna era indecisa su come farmi passare il tempo mi portava a fare lunghe passeggiate nei boschi e se voleva rendermi davvero felice mi portava alla fattoria degli animali. Era il mio luogo preferito in assoluto, più del parco giochi. La nonna mi portava sulle sue spalle, era instancabile quella donna ed io ne ero sinceramente innamorata. Amavo immensamente le sue mani fredde e lisce. Le piaceva indossare smalti colorati ed eccentrici. Riusciva ad essere sempre elegante, anche in vestaglia e pantofole. Ogni mattina aspettava già sveglia in cucina. Io scendevo le scale a chiocciola sbirciando tra uno scalino e l’altro e rischiano di perdere l’equilibrio. Mi svegliavo sempre di cattivo umore perché le tre collanine che portavo al collo durante la notte si trasformavano in un unico grosso nodo. Così lei metteva la sedia accanto alla mia e con pazienza districava le collane. Io restavo incantata dalle sue mani che con gentilezza e armonia riuscivano a sciogliere anche i nodi più intrecciati. Presto i nodi più difficili da separare divennero quelli con i ragazzi. La mia prima storia seria la ebbi a sedici anni. Si chiamava Valerio, mi piaceva molto e insieme stavamo bene. Ma l’amore che ti prometti a quell’età è fragile come un neonato. Ero un’adolescente che andava a rifugiarsi solo nelle braccia della nonna.  “Non scegliamo noi chi avere accanto.”   Arrivò il momento in cui i giorni con la nonna finirono e lì la vita mi diede uno schiaffo molto forte. Mi ero da poco diplomata. Le giornate erano calde e insopportabili, un chiaro segno che il mio compleanno si avvicinava. Decise di andarsene senza far rumore e disturbare nessuno. In verità avrei preferito essere disturbata. I miei diciotto anni mi avevano regalato solo nervosismo, problemi di integrazione e ansia crescente, concedendomi quindi solo pochi attimi di serenità. Per cui mi sforzavo tanto di tenere per me l’insoddisfazione della mia età. In quel periodo era difficile andare d’accordo ma non volevo rovinare i bei momenti con la nonna, per cui avevo messo una regola: ogni risposta brutta che le davo era un bacio in più la sera prima di andare a letto. Di risposte brutte quel giorno gliene avevo date tante, troppe. Come minimo per rimediare avrei dovuto dormire incollata alla sua guancia dando un bacio dopo l’altro a ripetizione. Decisi di prepararle una camomilla e un vassoio di biscotti al miele, i suoi preferiti. “Nonna sento odore di miele. Lo senti anche tu?” Nessuna risposta. Che strano, pensai, di solito i biscotti al miele risolvono sempre ogni cosa. Pensai che forse stava già dormendo. Entrai lentamente sbirciando da lontano. La porta era aperta. Mi avvicinai piano e sussurrai: “Nonna, dormi? Sono venuta a farmi perdonare.” Pensai che stesse dormendo profondamente, ero già pronta ad arrendermi. Non volevo svegliarla. Mi chinai delicatamente su di lei per darle un bacio, era fredda come le sue mani. Di colpo mi si gelò il sangue, un secondo dopo lasciai cadere a terra il vassoio. Mi sdraiai accanto a lei e la strinsi forte. Le chiesi scusa. Scusa, le dissi, per averti fatta andare via da sola. Lei che per tutta la sua vita ebbe un solo obiettivo: non farmi mai sentire sola. Morì sola nella sua stanza. Ancora oggi, dopo tredici anni e una figlia che porta il suo nome, non c’è giorno in cui io non pensi a lei.  C’è qualcosa di estremamente ingiusto nel lasciare andare le persone. Io non ho mai lasciato andare niente, non ho mai saputo come si fa. Ho sempre trattenuto ogni cosa, ogni persona e alla fine mi sono ritrovata con un accumulo di roba dentro che ora faccio fatica a riordinare. E quando devi lasciare andare una persona che non hai neanche salutato, allora dirle addio diventa impossibile.  Giulia è una bambina intelligente e molto sveglia. Oggi ha sei anni e il suo sport preferito è fare domande. Per me non è un gran problema, sono una radio sempre accesa che non lascia neanche uno spazio per la pubblicità. Quando le parlo della nonna non mi fermo più. Giulia ascolta attentamente e con entusiasmo. In particolare le piace la storia del bracciale. Ogni volta fa finta di scordarla così a me tocca raccontarla da capo. “G di cosa?” “G di Giulia.” “Giulia io?” “Giulia tu e la nonna.” Porto un bracciale con un ciondolo a forma di cuore da quando sono piccola. Quando la nonna mi ha lasciata ho fatto incidere la sua iniziale, un modo per convincermi di averla vicina.  “Quindi la nonna si chiamava come me?” Gli occhi di Giulia sembrano due piccole stelle che brillano in un cielo buio. Pur non essendosi conosciute c’è qualcosa di invisibile che le lega, le

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Masterclass Vita d’Altri: episodio due

In collaborazione con Pendoli Racconto di Tiziana Consoli Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Conta le stelle. Una alla volta, piano piano. Una stella, chiudi gli occhi. Inspira. Trattieni. E ora soffia fuori, piano piano. Occhi chiusi, brava. Due stelle. Chiudi gli occhi, inspira. Trattieni. L’odore di disinfettante non riusciva a coprire quel puzzo di vecchio che impregnava ogni cosa in quei corridoi, anche le persone. Soffia fuori, piano piano, occhi chiusi. Il profumo di azalee iniziava a sparire da Doso, ma se sprofondava il naso abbastanza nella sua pancia ovattata i fiori erano ancora lì, almeno loro. Tre stelle. Chiudi gli occhi. Inspira. Le sue gambe, penzoloni dalla sedia, si alternavano avanti e indietro, come due pendoli dello stesso orologio, per tenere il tempo della propria apnea. «Ehi, rieccomi. È uscito qualcuno dalla stanza mentre ero via?» «No, nessuno.» Trattieni. «Però! Se la prendono proprio comoda questi, ti pare? Vorrà dire che dovremo aspettare su queste belle sedie di plastica ancora per un po’. Tieni, ti ho preso un pacchetto di m&m’s dal distributore, e anche un succo. Vuoi che te li apro io?» le disse sventolandoli come fossero pon-pon. L’aver portato Doso doveva aver dato l’impressione che fosse ancora una bambina. Lo strinse forte, fino a nascondere la tutina azzurra dell’elfo sotto al braccio sinistro e facendogli sparire la testa imberrettata tra lo schienale di plastica e l’ascella. «Non mi piacciono quelle con le noccioline!» Non la guardò. «Ah…mi spiace, non ne avevo idea. Allora li metto da parte …ma se ci ripensi ti basta chiedere.» La sconosciuta numero uno infilò le merende nella borsa e le si sedette accanto, troppo accanto, costringendola a sollevare i piedi sulla sedia e incrociare le gambe, così il suo ginocchio avrebbe mantenuto la distanza tra loro due: non bisogna stare troppo vicino agli sconosciuti. Osservò la sconosciuta mentre lanciava borsa e cartellette piene di famiglie sul freddo sedile vuoto accanto a loro. Chissà quanti erano stati i culi con la mamma morta che avevano aspettato su quella stessa sedia per ore e ore prima che qualcuno decidesse i loro destini sfogliando, per ben dieci minuti, le frasi contenute in cartellette scritte da compratori di m&m’s e succhi. Soffia fuori, piano piano. Conta le stelle. Le toccava con le dita che venivano pizzicate dalle punte diamantate: c’erano tutte, anche in mezzo a quel corridoio vecchio e chiassoso. La porta di fronte si aprì di qualche centimetro mettendo in pausa la semivita che si recitava in quel corridoio. Pochi istanti dopo, dalla stanza uscì un culo qualche anno più grande del suo: andava già alle medie, di sicuro. Anche lui era accompagnato da una sconosciuta, loro però sorridevano: stava tornando a casa, di sicuro. Era brava a capire le cose. Chissà, forse un papà aveva trovato lavoro? A quello c’è rimedio e puoi tornare a casa, rifletté, se invece ti tiene chiusa al sicuro con la mamma, nella casa al piano di sotto, pare che non possa rimediare o almeno così volevano farle credere. Occhi chiusi. «Amore, te l’ho già detto: se non siamo mai stati a casa loro, sono sconosciuti.» «Ma se mi dicono il loro nome, non sono più degli sconosciuti, giusto mamma?» «No, amore, restano sempre sconosciuti.» «Ma la signora Anna, la padrona di Billy, noi la salutiamo sempre, però non siamo mai stati a casa sua. Lei è una sconosciuta?» «No, lei non lo è.» «Allora non ci capisco niente! Non ha senso!» – Silenzio. Stelle in avvicinamento. Faccia davanti alla mia. – «Proviamo così: se mamma non li conosce, sono sconosciuti.» – Pausa – «Adesso ha più senso?» – Sorriso. – «Si.» – Bacio in arrivo. – «Ottimo.» «Vittoria Ristalli?» La sconosciuta numero ventitré le fece riaprire gli occhi. Quella donnina era poco più alta del pomello della porta da cui era sbucata e cercava di guadagnare qualche centimetro cotonando i capelli tinti di rosso: per qualche secondo si ricordò che c’erano anche cose buffe nel mondo. «Sì, è qui con me. Sono la dottoressa Virginia Locaro. Sono la sua referente.» La sconosciuta numero uno le ricordò che non c’erano cose buffe per lei. «Tra dieci minuti vi facciamo entrare. Il giudice deve terminare di firmare alcuni atti e poi toccherà a voi.» Richiuse la porta. Quattro stelle. Chiudi gli occhi. Inspira. «Ok.» La sconosciuta numero uno si voltò a guardarla. «Sei nervosa?» Lei alzò le spalle. «Sarebbe normale se lo fossi, ma stai tranquilla, Vichi…» «Vittoria.» «Sì, scusa. Vittoria, ti stavo dicendo…che sarebbe normale se lo fossi, ma il giudice ti farà solo qualche domanda per sapere come stai, se ti trovi bene con la famiglia Tricomi, cose così.» Non le credette. «Ma io voglio tornare a casa!» «Tesoro, ti…». «Vittoria!» Trattieni il respiro. «Sì, Vittoria, d’accordo.» La sconosciuta numero uno avvolse le proprie mani attorno alle sue. «Non possiamo farti tornare a casa tua per ora, te l’ho spiegato.» «Ma Ivan però è rimasto lì, perché io non posso?» «Ivan è grande, tes… Vittoria, e lui può restare a casa solo.» Fece saltare il suo culo giù dalla sedia liberandosi da quelle manette, stritolò Doso e strinse le stelle tra le dita. Strillò. «Allora se è grande posso stare con lui!» La sconosciuta numero uno rimase immobile con gli occhi fissi in quelli suoi e non si arresero. Soffia fuori, piano piano. «Purtroppo non è abbastanza grande.» Chiudi gli occhi. «Fai la brava, ok? E non ti dimenticare Doso, ha troppa paura quando è solo. Mi raccomando: stringilo forte forte quando senti che ha paura, ok?» – Ombra accanto alla porta. Moccio. Fazzoletto in avvicinamento. Faccia davanti alla mia. – «Ivan, ma che razza di nome è Doso?» «Ma come, che nome è? Doso è un nome fantastico! È il diminutivo di Morbidoso, Morbi-Doso. È geniale!» «È stupido.» – Broncio. Sorriso. Occhi sfuocati. Braccia in avvicinamento. Freddo sul collo.

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Masterclass Vita d’Altri: episodio uno

In collaborazione con L’ombra di una giacca Racconto di Lisa Luna Platania Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Uno, due, tre, quattro. Le onde si infrangevano quattro volte lungo la scogliera, coprivano i massi con coperte di schiuma e subito si ritiravano, con tutta la leggerezza di cui erano capaci. Lo facevano uno, due, tre, quattro volte. Elia le aveva contate. Seguiva le onde con lo sguardo, costrette dalla marea a navigare per ore, per poi vederle sfogare moti di rabbia su gelidi massi sedentari. Così, per tutta la vita. Osservava dall’alto, Elia, dall’alto del molo di cemento su cui lui e il pescatore erano seduti, l’uno accanto all’altro. Attorno a loro, distese di mare coprivano tutto. L’odore salmastro dell’acqua marina gli pizzicava le narici, inducendolo a grattarne appena il contorno con l’unghia dell’indice. Con l’altra mano, reggeva un panino troppo vuoto. “Uno, due, tre… quattro!” Elia curvò la schiena, facendo dondolare le ginocchia penzoloni oltre il bordo del molo. Un gabbiano dal becco un po’ storto si posò per un attimo sulla superficie dell’acqua, acciuffando un pesce distratto. “Cinque?” A quel punto, il pescatore tirò fuori la lenza della canna da pesca. Accanto a lui, un secchio lindo, pieno d’acqua salata, ancora vuoto. Niente. “Una scatoletta di tonno?” Elia fissava quella scatoletta, chiedendosi per quale motivo si trovava lì, in quel momento, stretta nell’amo colorato. Il pescatore tirò appena su il mento, staccò il rifiuto e lo fece scivolare dentro il secchio. Elia immaginò i banconi del mercato pieni di pesci metallici, che se li stringevi tra i denti te li spaccavi tutti e alla fine diventavi di metallo pure tu, come in un contagio di massa. Aveva già letto una cosa del genere in un libro, tempo fa. “Ti avevo detto di andare via.”“Non posso. Papà dice che per diventare veri uomini bisogna imparare l’arte della pesca!” Il pescatore annuì. Sotto gli spessi baffi chiari, le sue labbra screpolate erano strette tra loro, la pelle un po’ macchiata ricoperta di sale e oceani dimenticati. I pochi capelli che aveva sul capo erano nascosti da un berretto grigio, e le sue braccia erano scoperte anche se faceva freddo, dove potevi notare i segni di un’abbronzatura forzata. Magari era un marinaio in pensione, pensò Elia. In tal caso, però, non avrebbe dovuto sapere che sarebbe stato più facile pescare i pesci con quelle grosse reti che tiravano via tutto quello che trovavano, comprese quelle alghe verdastre che un po’ gli facevano paura?   “Eri un marinaio, prima?”“Prima?”“Sì, dico, tanto tempo fa.”“Dedurre l’età di una persona non è carino.”“Non è vero, questo vale solo per le donne!” Anche le reti da pesca, in effetti, un po’ lo spaventavano. Questo perché spesso si ritrovava a immaginare di essere uno di quei pesci intrappolati lì sotto, ed anche se i pesci non avevano ali era come tarpare le ali ad una farfalla. Per dire. Un po’ come quando suo padre gli diceva che per essere uomini bisognava fare qualcosa, essere qualcuno o semplicemente essere. O non sarebbe stato nessuno, e le sue parole in fondo erano un po’ come le reti da pesca, dove si ingarbugliavano i pensieri, dove si ingarbugliava Elia. Uno, due, tre, quattro. Il pescatore tirò fuori la lenza dall’acqua. Elia salutò con la mano le onde che si ritiravano. “Un orologio da taschino? Chi è che indossa un orologio da taschino in un posto come questo?” Il pescatore staccò l’orologio dall’amo e, invece di cacciarlo nel secchio, se lo rigirò tra le mani. Riconobbe la marca, quest’ultima raffigurata dalla stampa in rilievo di una piccola aquila con quattro ali. Spinse un pulsantino e la aprì, sotto gli occhi attenti di Elia che ora osservavano il quadrante dal vetro rotto, le lancette spezzate in due, i colori sbiaditi dal tempo. “La particolarità di questo orologio è che, oltre allo scoccare delle ore, tiene conto della posizione in cui ti trovi.” Detto questo, con l’indice indicò il quadrante più stretto, quello vicino all’orologio. Elia strabuzzò gli occhi e, avvicinando il volto verso l’oggetto appena pescato, si abbandonò ad un sospiro pregno di sorpresa. “Quindi anche le bussole possono perdersi!”“Ma di cosa parli, le bussole non possono mica…”“Guarda qui!” Ed Elia poggiò un dito verso la freccetta impazzita, che non aveva più idea di dove andare, né dei consigli da offrire. Una bussola cos’era, dopotutto, se non una di quelle anime senza sepoltura, prive di una tomba su cui poter invitare le persone a piangerci sopra? Quando il vento taceva, quella diventava una città senza tempo. Dal cielo piangevano lacrime di ghiaccio, e ricoprivano tutto, anche il secchio, troppo pulito per contenere solo della spazzatura. Uno, due, tre, quattro. Elia salutò con la mano le onde che svanivano contro gli scogli. “Signor pescatore, secondo te Elia è un nome da femmina?”   Il pescatore non rispose subito. Se ne stava a guardare il mare, per lui inarrivabile se non per la canna da pesca che stringeva tra le mani, simili a due cortecce nelle cui insenature sembrava scorrere dell’acqua gentile. I suoi occhi erano tanto piccoli da risultare inesistenti, tutti nascosti dietro palpebre troppo pesanti. “Elia è un nome come un altro. Suona bene.”“Suona bene?”“Nel senso che quando lo si pronuncia il suono è più delicato. Più dolce di un Giovanni, ad esempio.”“Tu ti chiami Giovanni?” Il pescatore sospirò lentamente sotto gli spessi baffi, annuì e tirò su la lenza.Il panino, adesso, era stato riavvolto nella carta e adagiato sull’asfalto umido. Le onde iniziavano a farsi più insistenti, bagnando appena il cuoio delle sue scarpe troppo adulte. La verità era che non le voleva, quelle scarpe, come non gli importava di indossare quella giacca e quel cappello, e quegli stupidi distintivi che sfoggiava sull’abito e che dopotutto non gli riconoscevano nulla, a giudicare dal fatto che erano falsi tanto quanto i veli dell’uomo di cui

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