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Narrativa videoludica: Little Nightmares

A CURA DI I LIBRI DI LORENZO FOSCHI Fai clic qui Nel quinto episodio abbiamo esplorato Little Nightmares e la sua meta-narrazione; oggi si torna invece a navigare nelle storie tradizionali, perché Last Day of June è un piccolo grande capolavoro. Delicato ma potente, semplice ma completo, colorato ma straziante. Ciò che voglio fare oggi è però diverso dal solito: un originale tentativo di trasformazione del medium, perché proverò a narrare la trama del gioco in un piccolo racconto di trasposizione. Lo premetto, dunque, ci saranno spoiler sul finale del gioco, quindi se durante la lettura vi accorgete che potrebbe fare per voi… passate a un altro articolo di “Narrativa videoludica” o, perché no, cercate qualche libro Land Editore! Mi chiamo Carl, e il senso della mia vita ha sempre coinciso con mia moglie, June.Così è stato per mesi, per anni, finché la sfortuna ha reso me fortunato: sono io il sopravvissuto all’incidente che uccise mia moglie, e ancora non posso perdonarmelo.Vivo, sopravvivo,  su una sedia a rotelle, paralizzato nelle gambe e nei ricordi.Non sopporto il ricordo di lei, il rivivere dei luoghi permeati del suo odore. Vorrei strapparmi il suo volto dagli occhi, dipingere di nero i ritratti che ho affissi nella mia testa, correre nei campi stringendo le mani del suo fantasma. Tutto cambia quando, sfiorando la vernice di uno dei suoi quadri, le lancette del tempo si riavvolgono a mio favore.La rivedo avvolta nella sua vestaglia color panna, nell’acqua di colonia, nel suo sorriso malinconico; e mi rendo conto che il giorno dell’incidente è tornato. Devo evitarlo, voglio evitarlo, non deve accadere di nuovo. Eppure accade, di nuovo. E allora torno indietro, raschiando la vernice con crescente veemenza, ma accade ancora. Nonostante io provi a diversificare le mie azioni, nonostante io provi a dirottare tutte le fonti dell’incidente. Nonostante tutto, accade ancora, monotono e spietato.E allora torno indietro, e indietro ancora, e indietro ancora. E nonostante tutto accade nuovamente, e ogni volta la vedo. Ogni volta vedo il suo viso spegnersi, il suo cadavere raffreddarsi. E allora torno indietro, consumandomi. Eppure accade, di nuovo. Eppure accade, ancora. Ancora una volta, e ne sono stanco. Eppure accade ancora, accade ancora. E allora torno indietro, esausto, e questa volta provo l’unica cosa che so per certo possa funzionare. Mia moglie, confusa, accetta di guidare, preoccupata dal mio improvviso mal di testa. Una macchina si lancia all’improvviso verso di noi. Vedo nero, e per questo ne sono sicuro: non é accaduto. Mia moglie è salva. Se non hai letto l’episodio pilota, in cui racconto di cosa tratterà la serie, ti consiglio di recuperarlo! Io mi chiamo Lorenzo Foschi, e sono un giovane autore e informatico. Con Land Editore ho pubblicato “Lathar”, il mio fantasy, a cui ho poi associato lo sviluppo di un videogioco. Se sei curioso di scoprire quello che combino nella mia vita ti consiglio di fare un giro sul mio instagram personale, @lorenzofoschi, ma non prima di aver letto altri articoli su Land Magazine!

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Detox digitale: si può vivere da “sconnessi”?

«Degli anni Novanta mi manca l’irreperibilità. Ecco, l’irreperibilità. Che spegnevi e non c’eri più. Invece adesso ci sei sempre per tutti» ha dichiarato di recente Max Pezzali in un’intervista a Vanity Fair. Sempre più persone oggi si riconoscono in queste parole. Il rapporto Digital 2024 di We Are Social ha documentato che l’utente medio di Internet trascorre 6 ore e 40 minuti al giorno on line. Si tratta di un aumento di 4 minuti al giorno (+1 per cento) rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Si trascorre moltissimo tempo anche sui social media: 2 ore e 23 minuti al giorno. Anche se qui c’è una piccola inversione di tendenza: otto minuti in meno al giorno rispetto all’anno scorso. Cosa fanno le persone on line Quasi tutte le persone che accedono alla rete usano app di chat e messaggistica: il 94,7 per cento di tutti gli utenti Internet (tra 16 e 64 anni) afferma di aver utilizzato almeno uno di questi servizi nell’ultimo mese. L’uso dei social network è un’attività leggermente meno popolare ma altrettanto rilevante: il 94,3 per cento degli intervistati sostiene di usare queste piattaforme. I motori di ricerca si collocano al terzo posto, con l’80,7 per cento di utenti che affermano di usare servizi come Google e Bing. Lo shopping è al quarto posto, con poco meno di tre quarti di tutti gli utenti Internet impegnati in qualche attività di e-commerce ogni mese. Infine, i servizi location-based come mappe e app per il parcheggio completano la top 5, con poco più della metà degli intervistati che dichiarano di esserne utenti abituali. La disintossicazione digitale Ricerche recenti dimostrano che un’esposizione continua a stimoli digitali può aumentare i livelli di stress, ridurre la capacità di concentrazione e contribuire a disturbi come ansia e insonnia. Il fenomeno è amplificato dai social network, progettati per mantenere gli utenti connessi il più a lungo possibile grazie a meccanismi come lo scrolling infinito e le notifiche push. Inoltre, l’eccessiva permanenza online può portare a un senso di sovraccarico mentale: l’incessante flusso di informazioni rende difficile staccare la mente. Il risultato è un circolo vizioso che alimenta il bisogno di connessione continua. Ma un numero crescente di persone, di fronte al malessere che avverte, sta reagendo a questa iper-connessione… sconnettendosi. Sono in aumento gli utenti che scelgono di cancellare o sospendere i propri account social. Questo percorso, spesso definito “digital detox”, non demonizza la tecnologia, ma mira a riconquistare il proprio controllo su di essa. L’obiettivo è l’autodifesa, il tutelare il proprio equilibrio in un’epoca in cui la linea tra vita privata e vita digitale è sempre più sottile. Molte sono le testimonianze sulla disintossicazione digitale di utenti che raccontano la loro esperienza e forniscono consigli su come “domare la tecnologia”. C’è chi parte con la sfida dei 100 giorni di detox digitale, chi concretamente sostiene che «non è realistico tornare al telefono degli anni Novanta: le app di banca, dell’università, la mail e altre risorse sono imprescindibili». E allora «l’unica via è costruire una nuova abitudine, il che è un’esperienza esclusivamente personale». La motivazione più riportata da chi vuole disintossicarsi dai social è la sensazione di “perdere tempo” on line. Sempre più persone vorrebbero liberarsi da tale senso di obbligo di presenza sui social e in rete. Ma sono ostacolate dall’idea di conseguenze sociali come l’isolamento e la perdita di contatti, di opportunità sociali e professionali. Eppure, per certi versi le opportunità sono illusorie o sono infinitamente meno rilevanti di quello che si pensa. Disconnettersi, un lusso? Il vero lusso non è più navigare ovunque, ma disconnettersi, abbandonare la Rete. È questa la tesi di Evgeny Morozov, politologo e giornalista bielorusso, che già qualche anno fa dichiarava: «L’iperconnettività crea dipendenza, addiction. È fatta per questo. Le piattaforme come Google e Facebook sono studiate per attrarre. Assomigliano alle slot machine di Las Vegas, piene di lucine colorate e disegnate con un fantastico design. Il loro scopo è farci scommettere soldi, ma lo mascherano bene». E aggiungeva: «Oggi le uniche persone che possono concedersi il lusso di fare a meno di Internet sono i ricchi, i soli che possono contare su smartphone che ne tutelino la privacy o su qualcuno che faccia le ricerche per loro o twitti al loro posto. È questo il nuovo gap digitale tra ricchi e poveri».  Ma è davvero così oggi, o questo “lusso” è in fondo possibile per chiunque, basta volerlo? Ad Amsterdam tre ragazzi hanno lanciato il The Offline Club, un’associazione che organizza eventi “offline”, senza telefono o computer, nei bar e nei pub. «Questi locali – spiega uno dei tre fondatori, Ilya Kneppelhout – sono il luogo ideale per socializzare, anche se sempre più persone li usano per lavorare al computer o parlano al telefono mentre fanno colazione o cenano con gli amici, finendo così per non apprezzare l’atmosfera, il cibo e le bevande». Molti sono i professionisti che per lavoro scelgono consapevolmente di evitare WhatsApp e altri social network, preferendo usare solo mezzi più tradizionali come l’e-mail o il telefono fisso. Una scelta forse controcorrente in un mondo sempre più iper-connesso, ma anche un modo per stabilire confini. La tecnologia che si disintossica In un contesto in cui l’uso incessante dei social network è diventato una fonte di stress, anche i social stessi stanno cercando di adattarsi alle nuove tendenze, per rispondere alle esigenze di un pubblico sempre più attento al proprio benessere digitale. Instagram, per esempio, ha introdotto la possibilità di programmare i messaggi, soprattutto se inviati in fascia serale dopo le ore 22, in modo da ridurre il bisogno di essere costantemente connessi. Fino ad arrivare a quello che sembra un controsenso: applicazioni per il benessere digitale, e applicazioni per il detox digitale che bloccano altre applicazioni. Per esempio app come Forest, che usa un incentivo verde: si piantano alberi virtuali e si guadagnano monete quando ci si disconnette per un periodo di tempo assegnato. Una volta che gli utenti guadagnano abbastanza monete, possono spenderle per aiutare a piantare alberi veri in Camerun, Kenya, Senegal, Uganda e Tanzania.  Tutti segnali questi che, pur piccoli, indicano una crescente consapevolezza della necessità di bilanciare l’interazione digitale con il

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Se i compiti a casa li fa ChatGPT

C’è qualcosa che stiamo ignorando. C’è un impatto, enorme, sul mondo della scuola che si sta consumando nel silenzio pressoché totale di insegnanti, dirigenti, burocrati e, non da ultimo, dei genitori. Questo impatto si chiama ChatGPT. ChatGPT è un chat bot basato su intelligenza artificiale e apprendimento automatico. Si tratta di un software che simula il ragionamento umano, che è in grado di dialogare con noi e di rispondere alle nostre richieste.  Può scrivere un testo, e può farlo secondo l’esatto stile che chiediamo, fosse anche quello di un ragazzo di terza media. Può stilare un articolo, una poesia, un saggio. Perfino, se gli dessimo indicazioni man mano (ma nemmeno troppe), una intera tesi di laurea. Può eseguire, in sostanza, molti dei compiti che facciamo noi adesso, attraverso il nostro lavoro. E può imparare. Fagocita una enorme quantità di dati e testi, in una sorta di snowball effect. Ovvero, ChatGPT si nutre dei dati personali e dei meccanismi di feedback degli utenti rafforzando ulteriormente l’algoritmo. ChatGPT ha modo di capire dai suoi errori e migliorare. Utilizza l’apprendimento supervisionato su una vasta mole di testi per generare contenuti che risultano significativi e coerenti, come se si trattasse di un testo scritto da una persona. A differenza della maggior parte dei chat bot, inoltre, ChatGPT ha la capacità di ricordare le interazioni precedenti avvenute all’interno di una stessa conversazione. Questa tecnologia, messa a disposizione del grande pubblico nel novembre del 2022, è ancora in gran parte da esplorare e da comprendere fino in fondo, e i quesiti sorti nel frattempo sono molti. Diventerà sempre più intelligente? Che tipo di addestramento viene praticato inizialmente e da chi? C’è il rischio che qualcuno educhi queste piattaforme in modo distorto, producendo un rischio per l’utente finale e l’opinione pubblica? E poi la sfida, non ultima in senso di importanza, è capire come l’AI possa lavorare al nostro servizio e non al nostro posto. Una sfida che riguarda sempre di più la scuola.   Chat GPT e la scuola E qui viene il nodo del problema: gli studenti, dalle scuole medie in su, per i compiti a casa stanno usando ChatGPT. Potenzialmente per fare tutto. Traduzioni dall’inglese. Compiti di italiano. Ricerche su ogni genere di argomento. Problemi di matematica. È facile. Si inserisce il comando a Chat, e Chat esegue. Chat, poi, non ha i limiti di Google, che fornisce risultati uguali e preconfezionati per tutti. Le risposte che dà, parlando di ambito creativo, sono ogni volta originali, diverse. E pertanto non riconoscibili come fornite da una macchina.  Sembrano, cioè, formulate da un essere umano. Vediamo un esempio concreto. Un tempo l’insegnante chiedeva per compito agli alunni una cosa come: fate una ricerca su una donna importante per la storia. Un certo numero di studenti avrebbe cercato on line e magari su qualche libro a disposizione. Avrebbero poi rielaborato con parole loro. Un altro gruppo si sarebbe limitato a fare un copia-incolla da qualche sito senza starci a pensare troppo. In questo caso, il professore che avrebbe voluto scoprire l’inganno avrebbe avuto vita facile. Basta infatti prendere una frase, inserirla pari pari su Google per trovare la fonte e il gioco è fatto. Cosa impossibile con ChatGPT.   Fino a qualche tempo fa, spiega in un articolo Marco Andreoli, docente in Scritture per lo Spettacolo dal Vivo alla Sapienza di Roma, «bastava inserire una o più frasi del compito sospetto, per verificarne l’eventuale originalità. Ora però anche gli studenti adolescenti hanno imparato a utilizzare strumenti come ChatGPT, ciascuno di loro può chiedere all’Intelligenza Artificiale di elaborare una relazione sul mito di Orfeo (esempio che ha citato in precedenza nell’articolo, ndr), ricevendo, nel giro di qualche secondo, testi originali di cui sarà pressoché impossibile riconoscere la provenienza».  Il vantaggio in termini di tempo è schiacciante: se un ragazzo ci mette ore e fatica per fare una propria ricerca personale, ChatGPT impiega solo pochi istanti. Il problema forse più grave è che tutto ciò sta avvenendo sotto il silenzio di (quasi) tutti. Tranne pochi docenti che si stanno accorgendo della cosa e cercano di porre rimedi più improvvisati che strutturali, l’impressione è di avere di fronte una rete di omertà che, in effetti, si fatica a spiegarsi.  Forse siamo ancora attoniti, cerchiamo di dare poca importanza alla cosa come fosse una moda passeggera, forse nascondiamo la testa sotto la sabbia, forse non la capiamo bene. Forse le cose prima di essere comprese vanno elaborate, pensate, ci vuole tempo. E forse tutto ciò comporta fatica, e allora si preferisce intanto fare finta di nulla. Ma le conseguenze sono serie, e ne va di mezzo l’apprendimento degli studenti. «I professori dovranno ripensare ai compiti a casa – ha dichiarato Paolo Ferri, professore ordinario di Tecnologie della formazione all’Università Milano-Bicocca – puntando proprio sulle esperienze dei ragazzi. E poi i momenti di verifica dovranno essere necessariamente fatti in classe, meglio ancora se oralmente». Tentativi che in qualche modo cercano di rattoppare una falla che pare sempre più grande. Una snowball divenuta valanga. La sensazione è che manchi un intervento più organico e coordinato, “dall’alto”. Segno che la giurisprudenza e le istituzioni spesso faticano a stare al passo con i tempi della tecnologia. Ma intanto iniziare a parlarne potrebbe essere il primo passo per aprire un serio dialogo sul tema.

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