Francesca Redolfi

Recensione di “Tutta la vita che resta” di Roberta Recchia

Il romanzo Tutta la vita che resta di Roberta Recchia è un pugno e una carezza. Un pugno quando ti accorgi, dopo un tuffo negli anni Sessanta e un inizio agrodolce, che di colpo sta accadendo qualcosa di terribile. Allora succede che forse chiudi il libro, lo lasci lì sul comodino. Ti decidi a riaprirlo solo dopo qualche giorno, a dargli una chance dopo aver assorbito il colpo, perché la violenza nei libri la sopporti a fatica, a volte è troppo forte, non riesci a gestirla tutta quella cosa lì, ti entra negli occhi. Senti la sabbia nella bocca e l’aria che manca, sei con Betta e Miriam sulle Dune una notte in cui non dovevano esserci e invece c’erano. È un pugno che affonda altri colpi con il dolore della morte di Betta e il dolore di un’altra morte, diversa, non fisica, ma non meno atroce. Quella di Miriam, lei che tra loro due è ancora in vita ma forse vorrebbe essere morta, forse in parte lo è davvero. E allora inizia un’altra storia. Di crudeltà, di squallore, di una vita in bilico che vuole cercare la dimenticanza e la trova nei barbiturici, che la condannano alla dipendenza e all’oblio. Tutta la vita che resta è ancora una raffica di pugni quando Miriam va a cercare uno spacciatore per proseguire il suo oblio, e lì, nel momento peggiore, nella caduta nel punto più basso, insieme avverti una carezza, dolce, quando incontra Leo, il ragazzo che dovrebbe venderle la droga e invece saprà donarle un’altra di dipendenza, certo più dolce, e sua sorella, grande protagonista della svolta del romanzo: Corallina, il personaggio che forse più di tutti ho amato. È un romanzo che parla di uomini, degli abissi di violenza, la bestialità, la crudeltà, e al contrario di uomini che sono eroi d’altri tempi, come Stelvio, capace di amare oltre ogni limite, come Leo, che trent’anni dopo dimostrerà, per la nipote di Stelvio, lo stesso amore incondizionato. Come Corallina, donna in un corpo da uomo, sincera, leale, e spinta in ogni sua azione dal bene verso il fratello. Parla di uomini incapaci di gestire le proprie emozioni e impulsi, e di altri uomini capaci di aspettare, di capire che “l’amore senza il sacrificio non è niente”. Bellissimo l’arrivo della cagna dal pelo dorato nei momenti salienti della trama, di certo alter ego di Betta che torna da ovunque lei sia e dà le indicazioni sulla strada da imboccare. Un romanzo che parla anche di chi, a volte, non riusciamo a vedere. Concentrati sul proprio dolore, su quello di un proprio caro. Sono le vittime invisibili, come Miriam, ancora vive solo in apparenza, mentre nessuno si cura di loro. Un libro che davvero, come dice il titolo, resta, ti si imprime addosso e non si fa dimenticare, corre fino alla fine lasciandoti con il fiato sospeso. L’unico appunto, forse, è una certa velocità nel trattare il ricovero di Miriam alla Casa delle Farfalle, forse troppo rapida la sua ripresa, ma si sa che l’amore può fare tutto, anche far rinascere chi ormai si sentiva morto.  

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“Come” vuoi fare da grande?

È una domanda che ci siamo sentiti ripetere spesso quando eravamo piccoli: “Cosa vuoi fare da grande?”. Ed è la stessa che forse ripetiamo ai nostri figli, cercando di far loro immaginare cosa potrebbero voler fare in futuro, anche nell’idea che, quando sarà il momento, si iscrivano a una scuola adatta a loro e alle loro aspirazioni.  Tempo fa a un incontro a cui partecipai uno psicologo propose settanta professioni diverse chiedendo ai genitori di indicarne, tra quelle, almeno dieci in cui avrebbero potuto immaginare i propri figli. Dopo le prime tre, iniziai a trovarmi in difficoltà. Immaginavo i vari lavori che avrei potuto selezionare, chiedendomi: ma a mia figlia davvero piacerebbero? Oppure, indicando dei lavori in cui io potrei vederla, in qualche modo la potrei condizionare? In un articolo di Nino Santomartino su Huffington Post, viene proposto di spostare il focus dal cosa al come. Ovvero: come vuoi fare da grande?  Santomartino racconta infatti di quando, da piccolo, conobbe un medico «che divenne per me subito un modello per lo stile con cui svolgeva il proprio lavoro. Un professionista che non solo si muoveva con scioltezza e sicurezza nell’affrontare la sua disciplina, ma che interloquiva con i suoi pazienti con disponibilità ed eleganza». Dunque «ecco che, pur restando nella più totale confusione su cosa avrei fatto da grande, ebbi un’illuminazione che non verteva tanto sul “cosa fare” (o forse anche) ma sul “come farlo”. Non posi più attenzione solo su cosa avrei voluto fare, ma anche su come lo avrei fatto: qualsiasi lavoro avessi intrapreso, avrei voluto farlo con lo stesso stile di quel medico che sapeva coniugare benissimo professionalità e semplicità, sicurezza e umiltà. Grazie a lui cominciai ad amare le persone che fanno bene il proprio lavoro e che – pur infondendo sicurezza e muovendosi con risolutezza – restano umili e si rapportano nei confronti delle persone sempre con estrema gentilezza e disponibilità». Un secondo caso gli dà un’ulteriore conferma a questa sua aspirazione: Gigino il carburatorista. Il quale, meccanico, era appunto specializzato nel riparare i carburatori, e «si muoveva proprio con lo stile, la concentrazione ma anche con la sicumera di un cardiochirurgo nell’atto di compiere un intervento di alta chirurgia». Gigino il carburatorista «mi ha fatto comprendere che tutti i lavori, senza alcuna distinzione di sorta, dovrebbero essere svolti con quello stile e con quell’attenzione». Il come è una domanda che indica non solo una scelta, ma un’intenzionalità. Un voler far qualcosa. Se il cosa infatti potrebbe anche arrivare in un secondo momento, o cambiare lungo la strada, puoi però restare sempre fedele al modo in cui vuoi essere. Anche noi adulti potremmo provare a concentrarci su questo come. Non solo come indicazione da dare ai nostri figli, ma ogni volta che ci troviamo di fronte qualcosa che magari non ci piace particolarmente svolgere, sia essa un lavoro o una mansione che, volenti o nolenti, ci tocca fare.  Potrebbe influenzare il nostro modus vivendi, pensare a quanto sia importante non solo la scelta del lavoro da fare nella vita, ma anche quale impegno mettere, quale dedizione, quale passione. Infine quanto amore potremmo mettere in ciò che facciamo. Che forse regola in fondo tutto il nostro “come”.

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Detox digitale: si può vivere da “sconnessi”?

«Degli anni Novanta mi manca l’irreperibilità. Ecco, l’irreperibilità. Che spegnevi e non c’eri più. Invece adesso ci sei sempre per tutti» ha dichiarato di recente Max Pezzali in un’intervista a Vanity Fair. Sempre più persone oggi si riconoscono in queste parole. Il rapporto Digital 2024 di We Are Social ha documentato che l’utente medio di Internet trascorre 6 ore e 40 minuti al giorno on line. Si tratta di un aumento di 4 minuti al giorno (+1 per cento) rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Si trascorre moltissimo tempo anche sui social media: 2 ore e 23 minuti al giorno. Anche se qui c’è una piccola inversione di tendenza: otto minuti in meno al giorno rispetto all’anno scorso. Cosa fanno le persone on line Quasi tutte le persone che accedono alla rete usano app di chat e messaggistica: il 94,7 per cento di tutti gli utenti Internet (tra 16 e 64 anni) afferma di aver utilizzato almeno uno di questi servizi nell’ultimo mese. L’uso dei social network è un’attività leggermente meno popolare ma altrettanto rilevante: il 94,3 per cento degli intervistati sostiene di usare queste piattaforme. I motori di ricerca si collocano al terzo posto, con l’80,7 per cento di utenti che affermano di usare servizi come Google e Bing. Lo shopping è al quarto posto, con poco meno di tre quarti di tutti gli utenti Internet impegnati in qualche attività di e-commerce ogni mese. Infine, i servizi location-based come mappe e app per il parcheggio completano la top 5, con poco più della metà degli intervistati che dichiarano di esserne utenti abituali. La disintossicazione digitale Ricerche recenti dimostrano che un’esposizione continua a stimoli digitali può aumentare i livelli di stress, ridurre la capacità di concentrazione e contribuire a disturbi come ansia e insonnia. Il fenomeno è amplificato dai social network, progettati per mantenere gli utenti connessi il più a lungo possibile grazie a meccanismi come lo scrolling infinito e le notifiche push. Inoltre, l’eccessiva permanenza online può portare a un senso di sovraccarico mentale: l’incessante flusso di informazioni rende difficile staccare la mente. Il risultato è un circolo vizioso che alimenta il bisogno di connessione continua. Ma un numero crescente di persone, di fronte al malessere che avverte, sta reagendo a questa iper-connessione… sconnettendosi. Sono in aumento gli utenti che scelgono di cancellare o sospendere i propri account social. Questo percorso, spesso definito “digital detox”, non demonizza la tecnologia, ma mira a riconquistare il proprio controllo su di essa. L’obiettivo è l’autodifesa, il tutelare il proprio equilibrio in un’epoca in cui la linea tra vita privata e vita digitale è sempre più sottile. Molte sono le testimonianze sulla disintossicazione digitale di utenti che raccontano la loro esperienza e forniscono consigli su come “domare la tecnologia”. C’è chi parte con la sfida dei 100 giorni di detox digitale, chi concretamente sostiene che «non è realistico tornare al telefono degli anni Novanta: le app di banca, dell’università, la mail e altre risorse sono imprescindibili». E allora «l’unica via è costruire una nuova abitudine, il che è un’esperienza esclusivamente personale». La motivazione più riportata da chi vuole disintossicarsi dai social è la sensazione di “perdere tempo” on line. Sempre più persone vorrebbero liberarsi da tale senso di obbligo di presenza sui social e in rete. Ma sono ostacolate dall’idea di conseguenze sociali come l’isolamento e la perdita di contatti, di opportunità sociali e professionali. Eppure, per certi versi le opportunità sono illusorie o sono infinitamente meno rilevanti di quello che si pensa. Disconnettersi, un lusso? Il vero lusso non è più navigare ovunque, ma disconnettersi, abbandonare la Rete. È questa la tesi di Evgeny Morozov, politologo e giornalista bielorusso, che già qualche anno fa dichiarava: «L’iperconnettività crea dipendenza, addiction. È fatta per questo. Le piattaforme come Google e Facebook sono studiate per attrarre. Assomigliano alle slot machine di Las Vegas, piene di lucine colorate e disegnate con un fantastico design. Il loro scopo è farci scommettere soldi, ma lo mascherano bene». E aggiungeva: «Oggi le uniche persone che possono concedersi il lusso di fare a meno di Internet sono i ricchi, i soli che possono contare su smartphone che ne tutelino la privacy o su qualcuno che faccia le ricerche per loro o twitti al loro posto. È questo il nuovo gap digitale tra ricchi e poveri».  Ma è davvero così oggi, o questo “lusso” è in fondo possibile per chiunque, basta volerlo? Ad Amsterdam tre ragazzi hanno lanciato il The Offline Club, un’associazione che organizza eventi “offline”, senza telefono o computer, nei bar e nei pub. «Questi locali – spiega uno dei tre fondatori, Ilya Kneppelhout – sono il luogo ideale per socializzare, anche se sempre più persone li usano per lavorare al computer o parlano al telefono mentre fanno colazione o cenano con gli amici, finendo così per non apprezzare l’atmosfera, il cibo e le bevande». Molti sono i professionisti che per lavoro scelgono consapevolmente di evitare WhatsApp e altri social network, preferendo usare solo mezzi più tradizionali come l’e-mail o il telefono fisso. Una scelta forse controcorrente in un mondo sempre più iper-connesso, ma anche un modo per stabilire confini. La tecnologia che si disintossica In un contesto in cui l’uso incessante dei social network è diventato una fonte di stress, anche i social stessi stanno cercando di adattarsi alle nuove tendenze, per rispondere alle esigenze di un pubblico sempre più attento al proprio benessere digitale. Instagram, per esempio, ha introdotto la possibilità di programmare i messaggi, soprattutto se inviati in fascia serale dopo le ore 22, in modo da ridurre il bisogno di essere costantemente connessi. Fino ad arrivare a quello che sembra un controsenso: applicazioni per il benessere digitale, e applicazioni per il detox digitale che bloccano altre applicazioni. Per esempio app come Forest, che usa un incentivo verde: si piantano alberi virtuali e si guadagnano monete quando ci si disconnette per un periodo di tempo assegnato. Una volta che gli utenti guadagnano abbastanza monete, possono spenderle per aiutare a piantare alberi veri in Camerun, Kenya, Senegal, Uganda e Tanzania.  Tutti segnali questi che, pur piccoli, indicano una crescente consapevolezza della necessità di bilanciare l’interazione digitale con il

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Se i compiti a casa li fa ChatGPT

C’è qualcosa che stiamo ignorando. C’è un impatto, enorme, sul mondo della scuola che si sta consumando nel silenzio pressoché totale di insegnanti, dirigenti, burocrati e, non da ultimo, dei genitori. Questo impatto si chiama ChatGPT. ChatGPT è un chat bot basato su intelligenza artificiale e apprendimento automatico. Si tratta di un software che simula il ragionamento umano, che è in grado di dialogare con noi e di rispondere alle nostre richieste.  Può scrivere un testo, e può farlo secondo l’esatto stile che chiediamo, fosse anche quello di un ragazzo di terza media. Può stilare un articolo, una poesia, un saggio. Perfino, se gli dessimo indicazioni man mano (ma nemmeno troppe), una intera tesi di laurea. Può eseguire, in sostanza, molti dei compiti che facciamo noi adesso, attraverso il nostro lavoro. E può imparare. Fagocita una enorme quantità di dati e testi, in una sorta di snowball effect. Ovvero, ChatGPT si nutre dei dati personali e dei meccanismi di feedback degli utenti rafforzando ulteriormente l’algoritmo. ChatGPT ha modo di capire dai suoi errori e migliorare. Utilizza l’apprendimento supervisionato su una vasta mole di testi per generare contenuti che risultano significativi e coerenti, come se si trattasse di un testo scritto da una persona. A differenza della maggior parte dei chat bot, inoltre, ChatGPT ha la capacità di ricordare le interazioni precedenti avvenute all’interno di una stessa conversazione. Questa tecnologia, messa a disposizione del grande pubblico nel novembre del 2022, è ancora in gran parte da esplorare e da comprendere fino in fondo, e i quesiti sorti nel frattempo sono molti. Diventerà sempre più intelligente? Che tipo di addestramento viene praticato inizialmente e da chi? C’è il rischio che qualcuno educhi queste piattaforme in modo distorto, producendo un rischio per l’utente finale e l’opinione pubblica? E poi la sfida, non ultima in senso di importanza, è capire come l’AI possa lavorare al nostro servizio e non al nostro posto. Una sfida che riguarda sempre di più la scuola.   Chat GPT e la scuola E qui viene il nodo del problema: gli studenti, dalle scuole medie in su, per i compiti a casa stanno usando ChatGPT. Potenzialmente per fare tutto. Traduzioni dall’inglese. Compiti di italiano. Ricerche su ogni genere di argomento. Problemi di matematica. È facile. Si inserisce il comando a Chat, e Chat esegue. Chat, poi, non ha i limiti di Google, che fornisce risultati uguali e preconfezionati per tutti. Le risposte che dà, parlando di ambito creativo, sono ogni volta originali, diverse. E pertanto non riconoscibili come fornite da una macchina.  Sembrano, cioè, formulate da un essere umano. Vediamo un esempio concreto. Un tempo l’insegnante chiedeva per compito agli alunni una cosa come: fate una ricerca su una donna importante per la storia. Un certo numero di studenti avrebbe cercato on line e magari su qualche libro a disposizione. Avrebbero poi rielaborato con parole loro. Un altro gruppo si sarebbe limitato a fare un copia-incolla da qualche sito senza starci a pensare troppo. In questo caso, il professore che avrebbe voluto scoprire l’inganno avrebbe avuto vita facile. Basta infatti prendere una frase, inserirla pari pari su Google per trovare la fonte e il gioco è fatto. Cosa impossibile con ChatGPT.   Fino a qualche tempo fa, spiega in un articolo Marco Andreoli, docente in Scritture per lo Spettacolo dal Vivo alla Sapienza di Roma, «bastava inserire una o più frasi del compito sospetto, per verificarne l’eventuale originalità. Ora però anche gli studenti adolescenti hanno imparato a utilizzare strumenti come ChatGPT, ciascuno di loro può chiedere all’Intelligenza Artificiale di elaborare una relazione sul mito di Orfeo (esempio che ha citato in precedenza nell’articolo, ndr), ricevendo, nel giro di qualche secondo, testi originali di cui sarà pressoché impossibile riconoscere la provenienza».  Il vantaggio in termini di tempo è schiacciante: se un ragazzo ci mette ore e fatica per fare una propria ricerca personale, ChatGPT impiega solo pochi istanti. Il problema forse più grave è che tutto ciò sta avvenendo sotto il silenzio di (quasi) tutti. Tranne pochi docenti che si stanno accorgendo della cosa e cercano di porre rimedi più improvvisati che strutturali, l’impressione è di avere di fronte una rete di omertà che, in effetti, si fatica a spiegarsi.  Forse siamo ancora attoniti, cerchiamo di dare poca importanza alla cosa come fosse una moda passeggera, forse nascondiamo la testa sotto la sabbia, forse non la capiamo bene. Forse le cose prima di essere comprese vanno elaborate, pensate, ci vuole tempo. E forse tutto ciò comporta fatica, e allora si preferisce intanto fare finta di nulla. Ma le conseguenze sono serie, e ne va di mezzo l’apprendimento degli studenti. «I professori dovranno ripensare ai compiti a casa – ha dichiarato Paolo Ferri, professore ordinario di Tecnologie della formazione all’Università Milano-Bicocca – puntando proprio sulle esperienze dei ragazzi. E poi i momenti di verifica dovranno essere necessariamente fatti in classe, meglio ancora se oralmente». Tentativi che in qualche modo cercano di rattoppare una falla che pare sempre più grande. Una snowball divenuta valanga. La sensazione è che manchi un intervento più organico e coordinato, “dall’alto”. Segno che la giurisprudenza e le istituzioni spesso faticano a stare al passo con i tempi della tecnologia. Ma intanto iniziare a parlarne potrebbe essere il primo passo per aprire un serio dialogo sul tema.

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Le ricette delle feste: i borfadèi, specialità bergamasca

Ricetta e foto sono state tratte dal blog https://www.funandfood.it/ I borfadèi sono un piatto tipico bergamasco, e nella mia famiglia in particolare delle sere natalizie, o di quando le feste stanno per finire.  Prendiamo la sera del 26 dicembre o del 6 gennaio. Come ingredienti mettiamo una famiglia riunita, tra zii, cugini, nonni, un po’ di decorazioni natalizie sparse, uno stuolo di bambini e ragazzi, possibilmente un cane che scodinzola e abbaia. Ci vuole poi possibilmente una taverna a disposizione e una stufa già calda, accesa nel pomeriggio. Perché i borfadèi della tradizione necessitano di quel sapore affumicato dato dal fuoco vivo.  Prendiamo dunque l’ingrediente base, oltre a quelli di cui sopra: farina di mais. Infatti, da buon piatto contadino bergamasco, i borfadèi sono a base di polenta. Di fatto sono una polenta, solo più chiara, e coperta da latte freddo.  Poche cose dunque, giusto tre ingredienti: il resto la fa la compagnia e magari un buon bicchiere di vino rosso.    Ecco dunque la ricetta base dei borfadèi, da aumentare in base al numero di persone.     • 1 tazza di farina 00  • 1 tazza di farina di mais per polenta  • ½ l di latte + latte per la copertura  • ½ l di acqua  • Sale a piacere  Preparazione: portate a ebollizione latte e acqua salati. Aggiungete quindi a pioggia le farine mescolando per evitare grumi. Cuocete per circa trenta, quaranta minuti finché l’impasto non è cotto (consistenza collosa) e non si stacca bene dalle pareti del pentolino. Mettete quindi in ogni piatto metà del composto e presentate coperto di latte freddo. Heading scrittura creativa 3 Modelli e Tecniche di Neurostorytelling Usati nel Marketing, nel Cinema e nella Letteratura Il neurostorytelling unisce neuroscienze e narrazione per creare storie che stimolano il cervello in modo mirato. È una leva potentissima … Leggi Tutto Luglio 7, 2025 / admin società Raffaella Carrà è stata la prima donna a cantare apertamente il desiderio sessuale femminile sganciato dai sentimenti, senza colpa e senza bisogno di giustificazioni romantiche A quattro anni esatti dalla sua morte, non possiamo non pensare a quanto Raffaella Carrà sia stata rivoluzionaria. Non solo … Leggi Tutto Luglio 5, 2025 / admin società Perché il premio Strega non ci interessa Ogni anno il mondo editoriale italiano si ferma a guardare il Premio Strega. È un evento che fa parlare, genera … Leggi Tutto Luglio 4, 2025 / admin CinemaEventiPop Culturericorrenzesocietà 40 ANNI DI “RITORNO AL FUTURO” Il 3 luglio 1985, 40 anni fa, usciva nelle sale americane il film  che è diventato un cult: il primo … Leggi Tutto Luglio 3, 2025 / Silvia Dal cin firstletter Riguarda l’Intervista di Silvia Miraglia alla Nostra Autrice Silvia Dal Cin Hai perso l’intervista? Nessun problema! È ora disponibile per essere riguardata l’appassionante conversazione tra Silvia Miraglia e la nostra talentuosa … Leggi Tutto Luglio 2, 2025 / admin Nuove uscite NASCE LA LAND COLLECTION: I GRANDI CLASSICI DI LAND EDITORE TORNANO IN LIBRERIA A 12 EURO Torino, 1 luglio 2025 – Debutta oggi  Land Collection, la nuova collana editoriale firmata Land Editore che celebra i titoli più … Leggi Tutto Luglio 1, 2025 / admin

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