Recensione di “Tutta la vita che resta” di Roberta Recchia
Il romanzo Tutta la vita che resta di Roberta Recchia è un pugno e una carezza. Un pugno quando ti accorgi, dopo un tuffo negli anni Sessanta e un inizio agrodolce, che di colpo sta accadendo qualcosa di terribile. Allora succede che forse chiudi il libro, lo lasci lì sul comodino. Ti decidi a riaprirlo solo dopo qualche giorno, a dargli una chance dopo aver assorbito il colpo, perché la violenza nei libri la sopporti a fatica, a volte è troppo forte, non riesci a gestirla tutta quella cosa lì, ti entra negli occhi. Senti la sabbia nella bocca e l’aria che manca, sei con Betta e Miriam sulle Dune una notte in cui non dovevano esserci e invece c’erano. È un pugno che affonda altri colpi con il dolore della morte di Betta e il dolore di un’altra morte, diversa, non fisica, ma non meno atroce. Quella di Miriam, lei che tra loro due è ancora in vita ma forse vorrebbe essere morta, forse in parte lo è davvero. E allora inizia un’altra storia. Di crudeltà, di squallore, di una vita in bilico che vuole cercare la dimenticanza e la trova nei barbiturici, che la condannano alla dipendenza e all’oblio. Tutta la vita che resta è ancora una raffica di pugni quando Miriam va a cercare uno spacciatore per proseguire il suo oblio, e lì, nel momento peggiore, nella caduta nel punto più basso, insieme avverti una carezza, dolce, quando incontra Leo, il ragazzo che dovrebbe venderle la droga e invece saprà donarle un’altra di dipendenza, certo più dolce, e sua sorella, grande protagonista della svolta del romanzo: Corallina, il personaggio che forse più di tutti ho amato. È un romanzo che parla di uomini, degli abissi di violenza, la bestialità, la crudeltà, e al contrario di uomini che sono eroi d’altri tempi, come Stelvio, capace di amare oltre ogni limite, come Leo, che trent’anni dopo dimostrerà, per la nipote di Stelvio, lo stesso amore incondizionato. Come Corallina, donna in un corpo da uomo, sincera, leale, e spinta in ogni sua azione dal bene verso il fratello. Parla di uomini incapaci di gestire le proprie emozioni e impulsi, e di altri uomini capaci di aspettare, di capire che “l’amore senza il sacrificio non è niente”. Bellissimo l’arrivo della cagna dal pelo dorato nei momenti salienti della trama, di certo alter ego di Betta che torna da ovunque lei sia e dà le indicazioni sulla strada da imboccare. Un romanzo che parla anche di chi, a volte, non riusciamo a vedere. Concentrati sul proprio dolore, su quello di un proprio caro. Sono le vittime invisibili, come Miriam, ancora vive solo in apparenza, mentre nessuno si cura di loro. Un libro che davvero, come dice il titolo, resta, ti si imprime addosso e non si fa dimenticare, corre fino alla fine lasciandoti con il fiato sospeso. L’unico appunto, forse, è una certa velocità nel trattare il ricovero di Miriam alla Casa delle Farfalle, forse troppo rapida la sua ripresa, ma si sa che l’amore può fare tutto, anche far rinascere chi ormai si sentiva morto.
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