Cantare le emozioni rimanendo fedeli a se stessi: intervista a Enrico Nadai

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Il concerto è finito da poco. Intervisto Enrico seduti ad un tavolino dove troneggiano non alcolici ma acqua e tramezzini. 

Faccia da bravo ragazzo, rilassato e sorridente, chiacchieriamo un po’ e mi svela i suoi ultimi progetti.

Prima di parlare delle novità raccontami di te: da dove nasce l’amore per la musica?

Nasce tra le mura di casa, papà è insegnante di violino in Conservatorio, la mamma cantante. Ho iniziato a studiare violino con mio padre e suonavo nella Piccola Orchestra Veneta. Poi, preso da altre cose, mi sono allontanato… ma alla fine la musica mi ha ripreso e travolto, perchè si è sempre messa sulla mia strada. Ad esempio, in terza elementare avevo partecipato ad un concorso canoro per voci bianche e lo avevo vinto con “Calma e sangue freddo” di  Luca Dirisio; mi ero anche preparato bene eh, con i movimenti!

 (ndr. ridiamo pensando al fatto che, sebbene fosse iconico al tempo, non è un grandissimo pezzo, considerato anche il fatto che Enrico mi confessa che si era presentato alle selezioni del concorso cantando Angelo di Francesco Renga!)

Fatta quell’esperienza, avevo interrotto con il canto, finchè mia madre mi ha coivolto in duetti perchè le mancavano voci maschili per i saggi delle sue allieve. Lei sentiva che ero intonato e me lo ha chiesto… poi la cosa ha preso piede, sono andato a fare il concorso di Jesolo “Onde Sonore”, che ho vinto. Dopo quella vittoria la cantante Cheryl Porter si è interessata a me e sono arrivate le esperienze televisive.

E mamma e papà? Più orgogliosi o più preoccupati? Eri giovanissimo.

Guarda, io fortunatamente vengo da una famiglia nella quale sono sempre stato libero di fare quello che volevo, quello he mi sentivo. Non mi hanno mai detto “no”, nemmeno sulla scelta delle scuole, ecc. Sono genitori rigorosi sull’educazione, ma musicalmente e negli studi mi hanno sempre lasciato molta libertà. Ovviamente, vigilavano.

E arriviamo alla TV

La prima esperienza televisiva è stato un fulmine a ciel sereno, perchè non mi aspettavo di poter catturare un così ampio interesse da parte di un pubblico così vasto. Ero piccolo, avevo 13 anni. La cassa di risonanza mediatica è stata davvero forte e mi sono ritrovato spiazzato, tant’è che per una fase, nemmeno brevissima, la musica mi è stata indigesta perchè la collegavo con tutta una serie di situazioni che non vivevo benissimo, sia per mio carattere che perchè il mondo televisivo è molta apparenza.

In queste situazioni immagino che i tuoi abbiano detto (o pensato) “Enrico torna a casa!”

In alcuni casi sì. Hanno cercato di tutelarmi molto sotto questo aspetto perchè effettivamente c’erano tutta una serie di esperienze che io non avevo ancora la maturità per affrontare al meglio. Però, devo dire, tutto questo mi ha permesso di maturare tanto, forse anche un po’ bruciando le tappe. Io ero più estroverso prima della TV – mi confessa – poi ho imparato a tutelarmi, ha avuto l’effetto “opposto”. Mi piace mettermi in gioco, ma solo negli ultimi anni ho effettivamente cominciato a vedere la musica come un’esperienza trasformativa, creativa, trascinante. Ora sento di viverla in modo più maturo.

In realtà tu in televisione ci sei stato due volte, in due progetti diversi ed età diverse. Da piccolino con “Io canto”, la trasmissione condotta da Gerry Scotti, poi a “X Factor”. Erano programmi effettivamente molto diversi?

Sì, da una parte venivi trattato come un bambino, dall’altra come un artista, questa la differenza sostanziale. Io non impazzisco, devo essere sincero, per la società dello spettacolo, perchè è una caccia al like, al rinnovare l’interesse su sè stessi. Qualcuno perde davvero la propria coscienza…

Conveniamo entrambi che il rischio della visibilità è quello che si arrivi a cambiare o “svendersi” pur di continuare ad essere “visti”. Effettivamente a lui non è successo, gli dico, mi pare sia piuttosto coerente con la sua musica e il suo modo di porsi.

Credo sia importante preservare una propria identità e una propria autenticità in quello che si fa. Tutto quello che viene veicolato solo perchè possono piacere più al pubblico che all’artista che le fa, insomma… sono cose che non condivido più di tanto. Per carità, rispetto molto la scelta di chi fa quasi esclusivamente per il pubblico (in fondo tutti facciamo arte per avere un pubblico, per un riconoscimento). Il bisogno di riconoscimento è dentro ognuno di noi, è inevitabile, però dobbiamo anche saper riconoscere quel confine oltre il quale si va a deturpare la propria identità. Un artista, qualsiasi cosa faccia (ndr. Enrico ha interesse per la musica, ma anche per le arti visive) deve avere un’identità  definita, che piaccia o non piaccia, ma deve perseverare nella sua strada personale.

L'amore tra un musicista e una ragazza comune in

Tu come definiresti la tua identità in questo momento? Qual è il tuo target quando scrivi musica? 

Quando scrivo (musica e parole) non ho un target specifico. Se vado a vedere chi mi ascolta, sono più o meno miei coetanei (ndr. Enrico è classe 1996) o più grandi, in percentuale ridotta più giovani. So qual è il mio pubblico, ma nel momento in cui mi metto al pianoforte, comincio a cantare, comincio a scrivere un testo, quello è un pensiero che passa in terzo o quarto piano. Non mi preoccupo. Più ancora della fase di prima stesura della canzone, può essere la fase di produzione quella in cui magari ti domandi se ci possono essere delle sonorità  che possono piacere di più ad un certo tipo di pubblico piuttosto che ad un altro (ndr. come lo stile quando scrivi, l’uso di determinati termini, ecc) ma anche in quel caso credo si debba il più possibile fare qualcosa di adeguato ai propri gusti. Come ti dicevo prima, non ho nulla contro chi decide di percorre la strada del piacere al pubblico, perchè semplicemente magari “tengono famiglia”, lo posso capire. E’ anche apprezzabile in quel caso… io non posso parlare delle scelte artistiche altrui ma sono bene cosa cerco di fare io.

Cosa fa e cosa farà “da grande” Enrico? Lo hai già deciso?

Io sono sempre stato contrario a tutte le retoriche giovanilistiche – mi “sgrida” sorridendo, dato che gli ho detto che dal mio punto di vista è un giovanissimo con un’anima matura – a quel “hai 27,28,30 anni, sei ancora giovane”. Ma miseria! Tutti i miei punti di riferimento, scrittori, musicisti, che a quell’età avevano fatto già tantissimo! 

Vabbè, se ti metti a paragone con Mozart! 

Eh, vedi, noi come società stiamo ridimensionando tantissimo le nostre prospettive anche sotto questo punto di vista, proprio perchè siamo molto presi dalla nostra epoca. Invece abbiamo alle spalle una tradizione, un passato, che ha fatto sempre diversamente e che invece pretendeva molto prima e forse anche a livelli più alti. Io sotto questo aspetto cerco di rifarmi al passato, anche se non sono per la vuota ideologia del “fare fare fare” ma del “se si fa, tentare di fare bene”, ecco.

Ora che abbiamo inquadrato un po’ l’Enrico artista, parliamo dell’Enrico filosofo. Come mai questa scelta, filosofia? Ci si aspettava forse che uno nato musicista, con esperienza come cantante, continuasse quella strada con il Conservatorio o la televisione, i concerti, ecc… è stata una necessità tua?

Sì, esatto, brava, hai proprio usato la parola giusta. Necessità. C’era un filosofo francese che diceva che attorno ai vent’anni lui sentiva proprio la necessità di andare a studiare filosofia, che se non faceva quello era proprio perduto. Io posso dire che ho sentito la stessa necessità. La filosofia investe tutta la nostra esistenza, ha a che fare con le grandi questioni della vita e quindi quando ho cominciato a studiarla al liceo, a leggerne, ho capito che era la via che avrei voluto intraprendere.

Folgorato sulla via di Damasco dalla filosofia, insomma.

Esatto. Io dalla quarta superiore ero già convinto di voler andare a studiare filosofia all’Università e non me ne sono mai pentito.  Tornassi indietro lo rifarei.

Non hai avuto genitori o parenti e amici che ti hanno detto “e cosa fa poi il filosofo nella vita?”

No, forse qualche conoscente lo chiedeva, in effetti. Voglio dire, quello non è un percorso comodo. Tutti ti dicono “cosa vai a fare filosofia?”. Ricordo ancora al momento della scelta del liceo, la mia insegnante di inglese che disse “conosco una che è andata lì, adesso fa la cassiera al supermercato”, cosa nella quale io non vedo nulla di male ma per lei evidentemente c’era un senso peggiorativo. Io però ho scelto di intraprendere sempre quei percorsi che erano affini a me, non quelli che erano i più comodi; questo è successo per il liceo, per la facoltà di filosofia e in fin dei conti credo che anche il mio fare musica, nella maniera più autonoma possibile come faccio, sia un percorso scomodo.

Ci si aspetta forse il contrario da te e dai giovani in generale. Vieni da un ambiente televisivo  e hai deciso di dedicarti ad una musica “artigiana”. Non era più semplice rimanere in quel filone e seguire la strada comoda? Sei carino, perchè non buttarti sulle boyband?

Io ho fatto sporadicamente parte di quell’ambiente, non ho mai pubblicato una hit radiofonica… alla fine è sempre la volontà di rispondere ad una necessità interiore. Alla fine, veramente, per quanto la mia vita possa essere costellata di cose di cui a volte mi chiedo “ma perchè ho fatto quella cosa lì” – ride – poi alla fine mi rivolgo alla grazia divina e dico “dai vabbè correggimi tu”. Credo alla fine quello che faccio sia legato a quello che sento e che ho bisogno di essere. Come scrivere un libro attorno ad un autore poco conosciuto, una figura marginale rispetto alla storia del pensiero, che però sentivo profondamente affine. Sapevo che se dovevo dedicare molto tempo a scrivere, avrei dovuto farlo su qualcosa che mi interessasse davvero.

Ecco, il libro. Parliamo della scrittura. Come scrivi i testi delle tue canzoni? C’è qualcuno che ti fornisce gli spunti, le scene?

No, in realtà nessuno mi ha mai fatto questa gentilezza del suggerire – sorride – tranne che in maniera ironica. 

Ah non sei come Taylor Swift, che parla degli ex nelle canzoni?

– ride – No, No! Diciamo però che il cantautore bene o male è un testimone, della sua vita o del suo tempo, politicamente o mostrando il vissuto…

Ma Giorgia? E’ una Giorgia ben specifica, con quella gonna? (ndr. mi riferisco al suo pezzo “L’era di Plank”)

Ogni tanto io pesco da frammenti della mia vita, anche da persone che conosco o ho conosciuto. Nel caso di Giorgia, ho rubato il nome ma non il resto della persona, poi ho descritto tutt’altro. Il nome di base era abbastanza ricorrente nella mia vita quindi era giusto depositarlo all’interno di una canzone però il resto, il personaggio, è più mio. Penso che la creatività deve essere spronata. Mi appassionano ad esempio i film felliniani, così onirici, quindi mi piace pensare che anche la canzone possa essere il frutto di qualcosa del genere, che tocca la realtà ma poi si rifà a tante altre cose, come quando sognamo. Soprattutto in questo periodo sento di essere molto attratto anche a livello di letture da tutte quelle forme letterarie e musicali che hanno molte sfumature. A livello poetico penso a Verlaine, con una poesia molto rarefatta , con tanti chiaroscuri, come se fossero delle bozze a matita, bellissime ma lasciate lì. E’ quello che in parte sto cercando di ricreare in questa fase anche a livello musicale. Quindi sono queste un po’ le cose che mi ispirano, la mia vita, le letture del momento, ciò che ti piomba addosso, le esperienze degli altri.

Torniamo al tuo primo libro. E’ una tesi di filosofia?

E’ un lavoro monografico attorno a  Gustave Thibon, chiamato “il  filosofo contadino”, francese. Mi sono interessato a lui perchè ho sempre avuto curiosità per le figure poco conosciute, che non hanno ricevuto enorme attenzione in vita, è un personaggio ancora non riconosciuto. Per il modo in cui lui ha affilato tutti i suoi pensieri e li ha depositati su carta in maniera sublime, dovrebbe essere molto più conosciuto. E’ una figura isolata ma qualitativamente valida per il suo pensiero. (Gustave Thibon. Fede e filodofia di un pensatore cristiano.)

Stai scrivendo altro?

Sto già pensando ad un progetto diverso, ma che avrà una gestazione lunga, ahimè, perchè lavoro e purtroppo non posso dedicare molto tempo (vorrei vivere di musica e scrittura, ma sono professore di italiano alle scuole superiori e insegno canto nelle scuole di musica). Questo libro sarà  molto meno accademico, con un tema diverso.

Spoiler?

Sono delle storie, che hanno un tema specifico e auspico possano essere d’aiuto in primis per me stesso che le sto ricercando e le sto scrivendo e poi anche per i lettori, soprattutto perchè viviamo in un mondo molto disincantato e penso che queste storie possano restituire un po’ dell’incanto della vita e delle cose positive.

Perchè in fondo la vita è bella, no?

Certo, anche se io spesso scrivo cose malinconiche, infatti anche gli amici a volte mi dicono “mamma mia Enrico!” – ride – 

Abbiamo cose diverse da comunicare alle diverse persone che entrano nella nostra vita, ma anche con i diversi mezzi che utilizziamo per comunicare. Io so che, musicalmente, quel tipo di comunicazione mi è più semplice, più riuscita e più congeniale, tante volte è quello ciò che ho da dire, perchè forzarmi a fare qualcosa di completamente diverso? Poi la vita è fatta di fasi – ride alla mia proposta di un pezzo dance – e di conseguenza arriverà la fase di pezzi più allegri come è già capitato con “l’era di Plank”, però bisogna accogliere quello che arriva no? Ci sono artisti come Nick Drake che ha tutti pezzi devastanti, tremendi! Il cantautorato è anche questo, si è creato un clichè … ma questo sono io.

Concludo con una proposta. I tuoi testi sono già poesia, sono pieni di sentimento. Penso a “Andiamo via”, c’è già una storia, è già scalettato, ci sono tutti gli elementi. Perchè non scrivi un romance?

E’ un bellissimo invito. I romanzi più rosa che ho letto ed amo sono quelli di D’Annunzio. Ho sempre pensato che se avessi voluto scrivere, avrei voluto ereditare quel linguaggio così altisonante, ridondante ma bellissimo che è il suo. Quindi quando avrò la capacità e la maturità di fare l’emulo di D’Annunzio – sorride – posso pensare di scrivere un romanzo. No, scherzo, ci penserò dai, per ora me ne sto nella musica, più avanti non si sa.

Insomma, io ci ho provato. Ascoltatevi i pezzi di Enrico Nadai su Spotify e poi ditemi se non basterebbe metterne insieme un paio per avere un romance perfetto!





ENRICO NADAY SU

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