Masterclass Vita d’Altri: episodio quattro

In collaborazione con

Briciole di vita

Racconto di Michela Aiello

Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d'altri.
Editing a cura di: Manuela A.De Quarto

Le persone perdono un sacco di cose. Perdono le chiavi di casa, il portafogli, il cellulare… Perdono borse, sciarpe, guanti, cappelli, giacche, spille, anelli, bracciali. Perdono quaderni, penne, matite e orologi, perdono casa, lavoro, amore, sogni, speranze e a volte persino se stessi. Mi sono sempre chiesta se si tratti di semplice sbadataggine o se siano proprio quegli oggetti a volerci lasciare. Un po’ come con le persone, non sai mai se sei tu che le allontani o loro che se ne vanno. Se potessi, aprirei un negozio di oggetti dimenticati e lo chiamerei “la casa del ritrovo”. Nel mio negozio verrebbero raccolti tutti gli oggetti abbandonati sulle panchine dei parchi, tra i banchi di scuola, in metropolitana o sul bus, in questo modo, chiunque perda un oggetto saprebbe sempre dove ritrovarlo. Perché la cosa peggiore di perdere qualcosa è che non sai quando o se mai riuscirai a ritrovarla. Cenerentola, per esempio, perse addirittura una scarpa e fu il principe a setacciare ogni angolo del regno per restituirgliela e poi vivere felici e contenti. Inoltre, nel mio negozio non si farebbero consegne a domicilio.

A lavoro ho creato una scatola per gli oggetti smarriti che teniamo sempre all’ingresso. Non è come un vero e proprio negozio ma ha quattro pareti di cartone e basta a contenere tutto quello che trovo in giro. Mi piace pensare che quegli oggetti abbiano un posto in cui stare come se, in realtà, non fossero mai stati persi. Certe sere, prima che finisca il mio turno, rovisto tra gli oggetti di quella scatola e provo a immaginare o ricordare il nome, o il volto, di chi per primo li ha posseduti. Uno degli oggetti che solletica di più la mia fantasia è un paio di occhiali con una sola asticella. Mi chiedo come si potessero indossare. Ricordo di aver visto un’anziana signora portare quella montatura mentre era intenta a leggere un piccolo libro scritto con caratteri piccolissimi e mi sembra ancora di vedere quegli occhiali barcollare tra un orecchio e l’altro. Quando è andata via ho trovato i suoi occhiali, lei non è più tornata a cercarli. Forse in un mondo in cui tutti gli occhiali hanno una sola asticella tutti guarderebbero con sospetto chi porta degli occhiali simmetrici. Una volta anche mio nonno ruppe gli occhiali e per ben due mesi non volle ripararli, diceva di sentirsi speciale con una lente rotta. Fu proprio quel giorno che mi insegnò a giocare a scacchi e da quel momento anche io iniziai a desiderare degli occhiali con una lente rotta. Forse perché pensavo che con quelli avrei finalmente urlato “scacco matto!” oppure perché in quel modo, anche io, mi sarei sentita speciale. Nella scatola c’è una bambola di stoffa, con i capelli castani e il vestito verde, che sta lì da mesi. Nessuno è venuto a cercarla e a guardarla mi fa anche un po’ pena. Deve essere stato brutto passare dalla cameretta di una bambina a una scatola di cartone. Magari prima aveva una casetta tutta per sé e ora ha quattro pareti marroni. Chissà a chi apparteneva. Anche io avevo una bambola, che si chiamava Emma, poi un giorno la persi al parco-giochi e fu il giorno più brutto che avessi mai vissuto in quattro anni di vita. Mi regalarono altre bambole ma nessuna era come Emma.

Per un periodo la scatola aveva ospitato un bel bracciale d’argento, o d’oro bianco, non me ne intendo molto. Ammetto di averlo provato un paio di volte ma non era bello come i gioielli della mamma. Mi piaceva prendere le sue cose, forse perché erano tanto diverse dalle mie collane fatte con la pasta e le perline di legno. E mi sentivo proprio elegante con i maccheroni rigati e le perle! Il bracciale non restò a lungo nella scatola perché una ragazza con gli occhi scuri e i capelli scurissimi venne subito a cercarlo. Era un’insegnante e quel bracciale era un oggetto di famiglia, era talmente felice di averlo trovato che quasi piangeva.

Nella scatola c’è pure la fotografia di un paesaggio, una di quelle con l’orizzonte storto e un cartello stradale in primo piano. Forse chi l’aveva scattata era stato attirato da un particolare impercettibile agli occhi di un normale spettatore. Avevo una zia che camminava sempre con la macchina fotografica in mano. Fotografava gli oggetti più strambi, la gamba di un tavolino da tè, un bicchiere sul tavolo di un ristorante, un orologio fermo, una bottiglia di vetro rotta. Li definiva “briciole di vita” e aveva riempito album interi con queste fotografie. Una volta le dissi di voler imparare a raccogliere le “briciole di vita” di cui parlava tanto e lei rispose che bisognava solo ascoltare gli oggetti. Io passai una settimana in attesa che qualcosa mi parlasse ma non ottenni risposta né dal tostapane, né dalla lampada, né dalla sedia che avevo deciso di interrogare. Poi rinunciai.

Una volta, invece, ho trovato, per terra un bigliettino con una bella frase scritta sopra. Diceva: “l’amore è una battaglia senza scudi” e credo fosse uno di quei biglietti che si trovano all’interno di un biscotto della fortuna. L’ho raccolto perché mi ha fatto sorridere. Il ragazzino che mi piaceva alle medie mi aveva mollata con un bigliettino di dimensioni poco più grandi con scritto: “l’amore è per vecchi e io ho 12 anni”. Era la prima volta che un ragazzo mi scriveva un biglietto. E mentre raccoglievo quel pezzettino di carta dal pavimento ho pensato che fosse qualcosa di insolito perché noi non vendiamo biscotti della fortuna. Abbiamo caramelle gommose, cioccolato, liquirizia, chewing-gum, marshmallow, zucchero filato e dolciumi colorati che non hanno nemmeno un nome, ma non biscotti della fortuna. Mario, che è il proprietario, dice che vendere i biscotti della fortuna è inutile perché nessuno li mangia, tutti li comprano perché sperano che una frase su una striscia di carta possa risolvere i loro problemi, poi aprono il biscotto e insoddisfatti buttano via tutto. Così ho pensato che, forse, quel bigliettino era volato via dalla tasca di un cappotto, o qualcuno l’aveva gettato volontariamente. Qualunque fosse la sua origine, era sparito esattamente come era arrivato: dopo pochi giorni non era più tra quelle quattro pareti di cartone.

Passerei ore a esaminare uno per uno gli oggetti della scatola. Nel mio negozio gli scaffali sarebbero pieni di scatole di oggetti smarriti. La cosa più interessante è che nessuna sarebbe uguale a un’altra. Sono sicura che chiunque vorrebbe perdersi tra quegli scaffali e sbirciare nelle scatole. Magari, anche chi non ricorda di aver perso qualcosa entrerebbe nel mio negozio. Forse per semplice curiosità o per assicurarsi che tra gli scaffali non ci sia niente che gli appartenga. Forse perché, in fondo, siamo proprio come scatole di oggetti smarriti, nascondiamo pezzi di esistenza, attimi di quotidianità. Siamo il risultato delle persone che incontriamo e ognuna di esse ci lascia qualcosa, perde un pezzo di sé e lo lascia sulla nostra strada. Forse mia zia aveva ragione, forse il tesoro più grande che possediamo è fatto di ricordi, residui, briciole delle vite altrui. Distillati di esistenza nascosti come pergamene in bottiglia.

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