La mia Carlotta
Racconto di Gabriella Tomarchio
Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d'altri.
Editing a cura di: Manuela A.De Quarto
Stamattina il suo nome è Carlotta. È un nome che si addice bene al suo viso affusolato, alla pelle delle sue guance rosa, così levigata e idratata da un’infinità di creme di marche più o meno costose. Si addice anche ai suoi capelli biondo scuro, lunghi fino all’altezza delle spalle, lucidi, senza un filo di crespo, freschi di piega. Sono così ogni mattina, in verità. Ci stiamo tutti chiedendo se vive accampata dentro al salone di un parrucchiere o se è lei stessa una parrucchiera nel tempo libero.
Indossa delle cuffie bluetooth beige, abbinate con il suo abbigliamento tra il bianco panna e il marrone. Non un sopracciglio fuori posto, non una sbavatura dell’eyeliner, neanche una briciola di cornetto della colazione rimasto infilato tra gli incisivi. Non mi spiegherò mai come fa una Carlotta qualunque ad apparire sempre in ordine, indifferentemente che ci sia una bella giornata di sole o una di quelle dove la pioggia allaga le strade, e io non lo so perché non appartengo alla sua categoria. Scommetto che non farei fatica a digitare il suo nome su Instagram e scoprire che per hobby fa l’influencer anche lei, o almeno prova a diventarlo come le altre che sono nate naturalmente belle. Già me la vedo mentre scorrendo con il dito sullo schermo del suo iPhone sceglie le foto migliori da pubblicare, quelle che attirerebbero di più i ragazzi o gli uomini in generale. E alla fine lo trovo davvero il suo profilo. E’ curato e rispecchia una palette di colori ben precisa: si alternano foto ben illuminate dove indossa vestiti firmati sul beige o il bianco fingendosi spensierata, e altre in costume dove lascia davvero poco all’immaginazione. Non si vergogna mica, può permetterselo d’altronde. È una ragazza con un fisico asciutto, la danza le ha lasciato la pancia piatta. Attenta alla sua alimentazione, promuove il consumo di cibo sano anche sui social, ma mangia spesso al McDonald’s, si rimpinza di cioccolata e caramelle quando è di malumore o ha le mestruazioni e non prende un grammo neanche per sbaglio. Che ne sa lei di chi non trova mai la taglia giusta, di chi non si può immedesimare nel fisico secco dei manichini dei negozi. Il mondo è tutto suo.
Nel frattempo però deve mantenere l’immagine di ragazza perbene e sufficientemente intelligente, perciò si è iscritta all’Università, alla facoltà di Medicina perché ci vanno tutti e si guadagna molto alla fine del percorso. Con poco stupore ma parecchia rabbia di chi come me studia davvero in quella facoltà spinta da una reale passione e non ha l’aiuto di madre natura, gli esami le vanno pure bene, vantandosi di prendere voti alti perché mette spesso camicette scollate. Un sorriso e un bel reggiseno push up in pizzo sotto la camicetta bianca è quello che basta a far girare la testa al professore di turno che annusa senza poter toccare.
Ogni momento della sua vita è immortalato nelle stories. Attraverso un bel filtro vintage, frasi poetiche, fotografie estetiche la sua vita appare meravigliosa.
Una vita, la sua, che oscilla tra il fingersi impegnata di giorno ed uscire per ballare la sera, passarsi una mano tra i capelli morbidi e profumati e avere un bicchiere offerto al pub.
Carlotta non ha mai avuto un briciolo di difficoltà a socializzare, fin dai tempi della scuola.
Ha trovato subito le amiche del cuore, a un passo dal suo banco, e sono rimaste sempre quelle dalle scuole medie. Non smettono di partorire idee discutibili come diciottenni ritardate, i loro argomenti sono frivoli, seguono le mode dei social e alzano a tutto volume i tormentoni estivi nelle macchinone che gli hanno regalato per il diciottesimo.
Penso soprattutto a tutti quei maschi decerebrati che sbavavano dietro a Carlotta già dal primo giorno, accecati da quegli occhi chiari che hanno fatto innamorare tutti a turno. E’ così che lei è cresciuta sentendosi una dea con il potere di spezzare cuori. È un hobby anche questo. A qualcuno però ha detto di sì, fino al punto da indossare al dito un anello più importante degli altri. Le dona proprio su quell’anulare, così elegantemente abbellito. Fossi nata io con delle mani così snelle, da smaltare a piacimento senza sembrare un pagliaccio. A me sono toccate invece quelle cicciottelle rosicchiate dal nervosismo. Nessun anello potrebbe fare bella figura se lo indossassi io.
Lo vedo proprio questo fortunato, uno dei molti che l’ha cercata in privato e ha tentato di guadagnarsi la sua attenzione, e chissà se è grazie al fisico palestrato, ai regali preziosi, o perché esegue ogni suo ordine, la nostra bambola ha deciso di impegnarsi per sfoggiare il suo anello e vantarsene con le amiche. Certo, fino al prossimo ragazzo che stuzzicherà la sua curiosità.
Non dura l’amore quando sei come Carlotta.
Io l’amore non l’ho mai conosciuto, e ormai ho smesso di pure di cercarlo come una disperata.
Scommetto che neanche Carlotta ha veramente provato questo sentimento, ma almeno lei ha una persona che sposterebbe mari e monti per renderla felice. Io potrei rimanere sola anche per tutta la vita e non importerebbe a nessuno. Non sono esattamente il tipo di ragazza con cui qualcuno ha mai pensato di passare del tempo oltre quello deciso dai ritmi della scuola o dell’università, sono quella che per essere descritta nessuno si azzarda a sfogliare altri aggettivi oltre “simpatica”, e sono soltanto quello. La simpatica che però in testa è tutt’altro che divertita. Io un filo di trucco non lo metto perché non ne sono capace, soffro di acne da anni, ho il viso tondo e il doppio mento, un seno prosperoso che mi gonfia, non mi vesto alla moda e ho non ho mai avuto capelli fluenti e folti. I miei anelli preziosi sono i ciondoli dei cartoni animati che colleziono da quando sono piccola, come quello di Silvestro a cui sono talmente legata da averlo spostato di zaino in zaino, vari astucci e ora l’ho attaccato alle chiavi della macchina. Me lo regalò un bambino con cui passai del tempo durante una vacanza in Liguria. Eravamo entrambi bambini, genuini, buoni. Giocavamo in spiaggia a spostare le pietre per creare la nostra fortezza, lui era re e io la regina. Quello era un tempo in cui ancora si aveva il permesso di essere chi ci pareva senza sentire addosso il peso delle parole degli altri. Quel peso schiacciante, quella fatica che si è costruita come una catena più aumentavano le candeline sulla mia torta.
A volte mi chiedo davvero cosa vuol dire vivere senza questa fatica che provo da quando ho memoria, quella sorta di sofferenza perpetrata anno dopo anno tra i banchi di scuola nel non vedere mai il mio nome rientrare nelle liste delle ragazzine più popolari, non essere degnate di più di uno sguardo appena, avere un’etichetta, una sola, attaccata addosso. Quella solo buona per passare le risposte durante il compito, quella che ripeteva fino a tardi mentre gli altri a quell’ora erano fuori a divertirsi. Chissà cosa significa non evitare gli specchi, non vestirsi al buio, provare un rossetto senza apparire ridicola, sbarazzarsi una volta per tutte della peluria nera su pelle cadaverica. Non desiderare di finirla qui.
Anche qui, anche ora, mentre osservo la mia Carlotta seduta dalla parte opposta del vagone. E’ proprio di fronte a me. Lei non si ricorda neanche chi sono io, ma come potrebbe riconoscermi mai? Quando ci scrivevamo andavamo entrambe alle medie di due città lontane, lei mi mandava ogni tanto le sue foto mentre io ne scattai molte ma non ne inviai mai neanche una. Avevo sempre una scusa per non farmi vedere. Mi vergognavo troppo, non mi ritenevo alla sua portata. Lei era già più bella di me. Eppure, a quell’età, per qualche ragione a me sconosciuta ci incontrammo nello stesso forum. Si parlava di storie, io ero una che le scriveva mentre lei le leggeva, e ci siamo conosciute di messaggio in messaggio, trovando nell’altra, sorprendentemente per me, un’amica seppur a distanza.
Ho fatto le mie ricerche da quando mi sono trasferita, è certamente lei. E il suo nome non è Carlotta, ma Chiara, un nome che adesso non le vedo più addosso.
Mi potrei avvicinare, scendere dalla metro insieme a lei e percorrere il corridoio che porta all’uscita fingendo di inciampare e finirle addosso in modo che possa vedermi. Che idea stupida però, così infantile. Ma perché lo desidero così tanto? E’ passato troppo tempo, siamo ormai persone troppo diverse, lei non avrebbe più nessun piacere a parlare con me, anche soltanto farsi vedere in mia compagnia.
La nostra fermata si avvicina, i binari stridono rumorosi. Lei per un singolo attimo rivolge accidentalmente lo sguardo verso di me. Io di rimando abbasso immediatamente gli occhi, e sento le guance andare in fiamme. Temo di essere riconosciuta, forse sarebbe meglio lasciare tutto così com’è. Forse, dall’ultimo mio messaggio senza risposta preferisco immaginare com’è andata la sua vita.
Scendiamo anche stamattina insieme ma lontane, come una coppia di parentesi, che prima o poi si deve chiudere.
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