In collaborazione con Katja, moya mat’-mia madre Racconto di Ingrid Sciuto Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Ho deciso di scrivere per mia madre. Ho lasciato intatti gli sfondi e messo in evidenza i primi piani. Ho eliminato i collant, le bevande gassate, i segni d’aria. Ha detto di voler tornare a casa seduta sulla sua poltrona verde, con la radio accesa e lo sguardo smarrito. Prima le sono stati rubati i volti poi i nomi. L’Alzheimer è una macchina del tempo, mescola e rimonta le scene, ti blocca in un eterno presente, poi nel giro di un secondo ti scaraventa indietro a quando eri bambino. Le ho scritto di suo padre, misconosciuto scrittore controrivoluzionario dedito all’alcol, tormentato da continui bruciori di stomaco, deportato in Siberia in una fumosa Russia comunista. Aveva scelto di schierarsi col male, con i giornali da strapazzo, i volantini ciclostilati, i comizi frequentati da quattro gatti, con i movimenti che non avrebbero avuto nessuna possibilità di farcela. Proprio nessuna. Nei suoi pochi anni di attività aveva collaborato con alcune riviste, scritto poesie, fatto il giornalista. In base ai rapporti stilati dalla polizia politica viene arrestato per aver diffuso materiale di propaganda antisovietica. Il processo gli darà dieci anni di lavori forzati. Tvoy otets-tuo padre Il treno si ferma da qualche parte tra Mosca e Novosibirsk, la banchina è deserta ma ben illuminata. Il freddo è terribile, nessuna città, solo una fila di baracche. Il primo essere umano che il prigioniero incontra è Josif, un ufficiale slavo che gli urla in faccia con un alito di vodka; ha ventidue anni, è tra i migliori del suo corso e si trova molto lontano da casa. Invece di finire al fronte come la maggior parte della sua classe di leva, viene destinato di guardia a un Gulag nell’estremo nord del paese. Ma del resto, nella Russia del Terrore le possibilità di nascere e morire nello stesso luogo sono davvero molto basse. Portano il prigioniero in una catapecchia riscaldata da una stufa fumosa, lo spogliano nudo, lo tramortiscono e lo lasciano a tremare su un pavimento di assi di legno sconnesse. Ogni tanto la porta di quella topaia si apre e vengono a prenderlo a calci. Il campo di prigionia è un luogo sinistro, melmoso, quasi disabitato. Ci si addormenta in una cella dalle tavole marce e si sguazza nelle pozzanghere tra palizzate e filo spinato. I vestiti dei detenuti sono sporchi, strappati, troppo stretti e certamente troppo leggeri per la stagione. Dopo qualche settimana il prigioniero viene internato in un ospedale psichiatrico a pochi chilometri dalla capitale. Grovigli di fili elettrici percorrono le pareti scrostate. I termosifoni sono spenti, collegati a lunghe tubature arrugginite. Corsia numero tre, nove letti. Il suo è il primo addossato alla parete, l’ultimo dal quale si hanno notizie. Una volta mi capitò di vedere in un filmato di trenta secondi, il rientro in patria di alcuni sopravvissuti ai Gulag. Le persone che li circondano sono in maniche di camicia, loro invece hanno in testa cappelli di lana grossa e tremano avvolti nelle coperte. Intorno a loro si accalcano donne di tutte le età, ognuna di loro crede di riconoscere uno zio, un fratello, un marito. Nel 1937 furono circa un milione e 700 mila gli arrestati. Erano contadini, preti, portinai, insegnanti, macchinisti, sospettati di legami con i nemici del popolo russo. Una penna con il tappo rosso ed una bottiglia di acqua di colonia 4711 dall’etichetta blu e oro. Tanto rimane di lui. Josif Lealtà, prontezza e senso di responsabilità avevano garantito a Josif il grado di commissario per la sicurezza di stato della NKVD, la polizia segreta della grande armata russa. L’ingranaggio corrotto di un sistema paranoico. Non aveva più stivali lucidi e modi da provinciale, ma restava comunque un gendarme. Il suo lavoro consisteva nel sorvegliare, controllare e riferire al governo. Le persone che finivano nelle liste del NKVD venivano arrestate, torturate, distrutte fisicamente e psicologicamente. I processi che ne seguivano erano sommari con livelli probatori bassissimi; la testimonianza di un informatore anonimo era sufficiente per l’arresto. Josif abbassa l’aletta del parasole della Volga nera, si dà un’occhiata nello specchietto e lo rialza, mentre accosta silenziosamente davanti alla chiesa cristiana. Il livido intorno all’occhio sinistro inizia a venire fuori, la pelle è gonfia, il colore vira dal rosso scuro al blu. “Dovrei smetterla di partecipare a incontri di boxe clandestini” sorride beffardo. “Pagano bene, però”. In fondo alla piazza, oltre il piccolo chiosco per i giornali, scorge la donna che sta aspettando. Katja Il vestito è quello verde delle grandi occasioni. Un po’ di crema sulle labbra screpolate per il freddo, due forcine nei capelli, i passi attenti a non scivolare sul ghiaccio. Continua a ripetersi di non pensare, mentre cammina in fretta, metà del viso scaldato da una sciarpa rossa. Attraversa quei luoghi che conosce a memoria, staccionate, case, garage, giardini, vetrine, dirigendosi verso la chiesa dove è stata battezzata da bambina. Minuscoli fiocchi di neve tra i capelli. Quello che non so-Chego ya ne znayu “Buongiorno mamma, come ti senti oggi” “Buongiorno a lei” “Sei riuscita a mangiare qualcosa? Hai visto che giornata meravigliosa?” “Questa non è casa mia” “Per il brodo devi usare il cucchiaio, aspetta ti aiuto io” “Il regime mi ha ucciso” “…” “…” “…” “Non lo riconobbi subito. Poi tutto è cambiato, io cambiai. Sapevo chi fosse e cosa faceva. Sapevo delle condanne a morte, gli abusi, le torture. Ci vedevamo di nascosto perché lui era sposato. Inscenare il rapimento fu un’idea sua. Mi aveva preso una stanza nel quartiere di Arbat sulla riva del fiume Moskova. Profumo di aghi di pino. Adesso dormi. Aveva un’intelligenza irrequieta e subdola, capace di sfruttare ogni situazione a suo vantaggio. Non so