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Celebrazione dei Diplomi del Biennio 2022-’24 alla Scuola di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios

Siamo lieti di invitarvi alla cerimonia di diploma del biennio 2022-’24 della Scuola di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios, che si terrà questa sera presso il Teatro 106 di Viagrande Studios. L’evento sarà una celebrazione del talento e della creatività dei diplomandi.

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Masterclass Vita d’Altri: episodio otto

In collaborazione con Eredità Racconto di Roberto Zito Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto L’ultimo scherzo me lo avevano fatto prima di morire. L’arbre magique che aveva l’odore dello spogliatoio maschile di una palestra. Mio padre lo aveva appeso sul cruscotto il giorno stesso in cui aveva comprato quell’auto e non l’aveva più tolto.  Aveva smesso da tempo di emanare il suo odore di palle sudate e detersivo, eppure quell’aroma mi si era infilato nel naso e non se n’era più andato. Era sopravvissuto solo quello. Il resto si era schiantato giù per una vallata ricoperta di nevischio. Della Fiat Uno dei miei genitori non era rimasto nulla, solo un ammasso di lamiere accartocciate. E quello stupido arbre magique. Ero rimasto orfano, e l’unica eredità che mi avevano lasciato era un deodorante per auto. A Harry Potter avevano lasciato un caveau pieno di soldi. A me, questo. Sarebbe più semplice se dicessi che in fondo con i miei non avevo un legame così stretto. Che erano due genitori insensibili, distanti, incapaci di qualsiasi slancio affettivo. E invece quei due erano un vero spasso. Mio padre poi, quello era un idiota patentato, pronto allo sfottò verso chiunque in ogni occasione, capace di dire sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato, campione olimpionico di regali brutti, dai profumi al sapore di merluzzo ai maglioni color senape andata a male. Sapeva sdrammatizzare quando sentiva che l’aria si faceva pesante, sapeva stemperare i conflitti e intromettersi in ogni discussione per buttarla in caciara. Magari, se la stava ridendo fino all’ultimo secondo di vita, prima di piombare su quel fottuto strapiombo in mezzo ai boschi dei Nebrodi. Stava rientrando da una cena con mamma, era il loro decimo anniversario di matrimonio. Io me lo ricordo il loro matrimonio, ero già in seconda elementare e saltai una noiosissima mattinata di dettati e addizioni per andare in una spiaggia e vedere i miei che si sposavano, vestiti come due hippie, a bordo di un vecchio pulmino Wolkswagen. Erano così, fuori dal mondo, fuori dal tempo. Forse, era tutta una ribellione verso i loro stessi genitori. Che pareva non vedessero l’ora di indossare l’abito più lugubre possibile per il funerale dei loro figli. Una volta sepolti, mi strinsero in un abbraccio arrugginito, gelido come una tenaglia, e mi scortarono fino alla mia nuova vita come un condannato del miglio verde. Orfano morto che cammina. La mia destinazione era la casa della mamma di mio padre, che pareva la magione della signora Rottenmeier. È incredibile come a volte le mura di un’abitazione prendano la conformazione dei suoi stessi abitanti. Quella casa aveva soffitti che si allungavano come il collo di mia nonna quando mi squadrava dalla testa ai piedi. La carta da parati si increspava come il suo labbro arricciato, mentre osservava i miei abiti spiegazzati, le sneakers con i lacci slacciati, la catena che penzolava tra le tasche bucate del mio unico paio di Denim. I mobili erano solcati da venature che pulsavano come le sue arterie, quando mi sentiva ciondolare con i piedi umidi sul pavimento in marmo caramellato. Nell’aria poi c’era lo stesso odore del suo fiato, un miscuglio di broccoli bolliti, incenso e patchouli. L’unico suono che era ammesso nella casa era il rumore della sua vecchia Singer, la macchina da cucire a pedali con cui si era pagata quella magione polverosa, mentre mio nonno gestiva i terreni di famiglia, prima che li cedesse per farci costruire una decina di Eurospin. Pareva ossessionata dall’idea di cucire qualsiasi cosa, dalle vecchie lenzuola alle tende del bagno, fino a cucirmi i jeans nella notte, mentre dormivo, incapace di accettare qualsiasi strappo nella sua esistenza rammendata. A me non restava che passare le giornate stringendo l’arbre magique che ormai si era impregnato dell’odore di quelle mura, bagnandolo col rimorso di non essere salito in macchina con loro. Per distrarmi, presi a leggere qualsiasi cosa trovassi in quella casa. E l’unica cosa che stava tra gli scaffali era l’enciclopedia del Fascismo. Erano dei tomi con la copertina color bordeaux e il font che pareva lo stesso dei cinegiornali Luce. Cominciai dalla A di Almirante e non mi fermai più, divorando ogni parola senza alcun interesse se non quello di fuggire da lì. Diamine, persino il regime fascista pareva un paradiso, in confronto a quella dittatura di merletti. Inizialmente lei non ci faceva caso, finché me ne stavo in silenzio a leggere dell’assassinio di Matteotti. Ma si incazzò di brutto quando notò che facevo le pieghette sulle pagine, per non perdere il filo. Non avevo nulla da usare come segnalibro, e nonostante i suoi rimproveri continuai a stropicciare quei fogli, che evidentemente erano l’unico lascito di mio nonno. Quando non ne poté più, mi intimò di smetterla. Io continuai a leggere, spiegazzare le pagine e inumidirle con le dita, come se fosse l’ultimo atto della nostra guerra. A quel punto lei pestò i piedi, sembrava pronta all’assalto. Invece si voltò verso il tavolo del salotto, afferrò un centrino, lo portò verso la macchina da cucire, cominciò a pestare i pedali con forza. Infine, mi diede in mano un segnalibro. Era fatto della stessa stoffa del centrino, ne conservava ancora i ricami con sopra i mandali circolari. Lo tenni in mano per un po’, incredulo. Era davvero capace di farci qualsiasi cosa, con quell’aggeggio. Non seppi fare altro che mormorare un timido «Grazie» e tornare al volume quinto dell’Enciclopedia, dalla P di “Patti Lateranensi” alla S di “Salò”. Quando terminai l’enciclopedia, passai a leggere le riviste che venivano spedite per posta alla nonna, rimasugli degli abbonamenti lasciati dal nonno e che lei non sapeva come disdire. Panorama, L’Espresso, Sorrisi e Canzoni, settimanali che sarebbero rimasti incellofanati se non li avessi presi e letti con voracità, imparando a memoria i testi delle prossime canzoni di Sanremo. Infine, passai ai testi sacri nascosti nei cassetti della

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Masterclass Vita d’Altri: episodio sette

In collaborazione con Katja, moya mat’-mia madre Racconto di Ingrid Sciuto Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Ho deciso di scrivere per mia madre. Ho lasciato intatti gli sfondi e messo in evidenza i primi piani. Ho eliminato i collant, le bevande gassate, i segni d’aria.          Ha detto di voler tornare a casa seduta sulla sua poltrona verde, con la radio accesa e lo sguardo smarrito.  Prima le sono stati rubati i volti poi i nomi. L’Alzheimer è una macchina del tempo, mescola e rimonta le scene, ti blocca in un eterno presente, poi nel giro di un secondo ti scaraventa indietro a quando eri bambino.        Le ho scritto di suo padre, misconosciuto scrittore controrivoluzionario dedito all’alcol, tormentato da continui bruciori di stomaco, deportato in Siberia in una fumosa Russia comunista. Aveva scelto di schierarsi col male, con i giornali da strapazzo, i volantini ciclostilati, i comizi frequentati da quattro gatti, con i movimenti che non avrebbero avuto nessuna possibilità di farcela. Proprio nessuna. Nei suoi pochi anni di attività aveva collaborato con alcune riviste, scritto poesie, fatto il giornalista. In base ai rapporti stilati dalla polizia politica viene arrestato per aver diffuso materiale di propaganda antisovietica. Il processo gli darà dieci anni di lavori forzati.                Tvoy otets-tuo padre Il treno si ferma da qualche parte tra Mosca e Novosibirsk, la banchina è deserta ma ben illuminata. Il freddo è terribile, nessuna città, solo una fila di baracche. Il primo essere umano che il prigioniero incontra è Josif, un ufficiale slavo che gli urla in faccia con un alito di vodka; ha ventidue anni, è tra i migliori del suo corso e si trova molto lontano da casa. Invece di finire al fronte come la maggior parte della sua classe di leva, viene destinato di guardia a un Gulag nell’estremo nord del paese. Ma del resto, nella Russia del Terrore le possibilità di nascere e morire nello stesso luogo sono davvero molto basse.                  Portano il prigioniero in una catapecchia riscaldata da una stufa fumosa, lo spogliano nudo, lo tramortiscono e lo lasciano a tremare su un pavimento di assi di legno sconnesse. Ogni tanto la porta di quella topaia si apre e vengono a prenderlo a calci. Il campo di prigionia è un luogo sinistro, melmoso, quasi disabitato. Ci si addormenta in una cella dalle tavole marce e si sguazza nelle pozzanghere tra palizzate e filo spinato. I vestiti dei detenuti sono sporchi, strappati, troppo stretti e certamente troppo leggeri per la stagione.      Dopo qualche settimana il prigioniero viene internato in un ospedale psichiatrico a pochi chilometri dalla capitale. Grovigli di fili elettrici percorrono le pareti scrostate. I termosifoni sono spenti, collegati a lunghe tubature arrugginite. Corsia numero tre, nove letti. Il suo è il primo addossato alla parete, l’ultimo dal quale si hanno notizie.    Una volta mi capitò di vedere in un filmato di trenta secondi, il rientro in patria di alcuni sopravvissuti ai Gulag. Le persone che li circondano sono in maniche di camicia, loro invece hanno in testa cappelli di lana grossa e tremano avvolti nelle coperte. Intorno a loro si accalcano donne di tutte le età, ognuna di loro crede di riconoscere uno zio, un fratello, un marito. Nel 1937 furono circa un milione e 700 mila gli arrestati. Erano contadini, preti, portinai, insegnanti, macchinisti, sospettati di legami con i nemici del popolo russo.  Una penna con il tappo rosso ed una bottiglia di acqua di colonia 4711 dall’etichetta blu e oro. Tanto rimane di lui.  Josif Lealtà, prontezza e senso di responsabilità avevano garantito a Josif il grado di commissario per la sicurezza di stato della NKVD, la polizia segreta della grande armata russa. L’ingranaggio corrotto di un sistema paranoico. Non aveva più stivali lucidi e modi da provinciale, ma restava comunque un gendarme. Il suo lavoro consisteva nel sorvegliare, controllare e riferire al governo. Le persone che finivano nelle liste del NKVD venivano arrestate, torturate, distrutte fisicamente e psicologicamente. I processi che ne seguivano erano sommari con livelli probatori bassissimi; la testimonianza di un informatore anonimo era sufficiente per l’arresto. Josif abbassa l’aletta del parasole della Volga nera, si dà un’occhiata nello specchietto e lo rialza, mentre accosta silenziosamente davanti alla chiesa cristiana. Il livido intorno all’occhio sinistro inizia a venire fuori, la pelle è gonfia, il colore vira dal rosso scuro al blu. “Dovrei smetterla di partecipare a incontri di boxe clandestini” sorride beffardo. “Pagano bene, però”.  In fondo alla piazza, oltre il piccolo chiosco per i giornali, scorge la donna che sta aspettando. Katja Il vestito è quello verde delle grandi occasioni. Un po’ di crema sulle labbra screpolate per il freddo, due forcine nei capelli, i passi attenti a non scivolare sul ghiaccio. Continua a ripetersi di non pensare, mentre cammina in fretta, metà del viso scaldato da una sciarpa rossa. Attraversa quei luoghi che conosce a memoria, staccionate, case, garage, giardini, vetrine, dirigendosi verso la chiesa dove è stata battezzata da bambina. Minuscoli fiocchi di neve tra i capelli. Quello che non so-Chego ya ne znayu “Buongiorno mamma, come ti senti oggi” “Buongiorno a lei” “Sei riuscita a mangiare qualcosa? Hai visto che giornata meravigliosa?” “Questa non è casa mia” “Per il brodo devi usare il cucchiaio, aspetta ti aiuto io” “Il regime mi ha ucciso” “…” “…” “…” “Non lo riconobbi subito. Poi tutto è cambiato, io cambiai. Sapevo chi fosse e cosa faceva. Sapevo delle condanne a morte, gli abusi, le torture.        Ci vedevamo di nascosto perché lui era sposato. Inscenare il rapimento fu un’idea sua. Mi aveva preso una stanza nel quartiere di Arbat sulla riva del fiume Moskova. Profumo di aghi di pino. Adesso dormi.    Aveva un’intelligenza irrequieta e subdola, capace di sfruttare ogni situazione a suo vantaggio. Non so

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Masterclass Vita d’Altri: episodio sei

In collaborazione con La mia Carlotta Racconto di Gabriella Tomarchio Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Stamattina il suo nome è Carlotta. È un nome che si addice bene al suo viso affusolato, alla pelle delle sue guance rosa, così levigata e idratata da un’infinità di creme di marche più o meno costose. Si addice anche ai suoi capelli biondo scuro, lunghi fino all’altezza delle spalle, lucidi, senza un filo di crespo, freschi di piega. Sono così ogni mattina, in verità. Ci stiamo tutti chiedendo se vive accampata dentro al salone di un parrucchiere o se è lei stessa una parrucchiera nel tempo libero. Indossa delle cuffie bluetooth beige,  abbinate con il suo abbigliamento tra il bianco panna e il marrone. Non un sopracciglio fuori posto, non una sbavatura dell’eyeliner, neanche una briciola di cornetto della colazione rimasto infilato tra gli incisivi. Non mi spiegherò mai come fa una Carlotta qualunque ad apparire sempre in ordine, indifferentemente che ci sia una bella giornata di sole o una di quelle dove la pioggia allaga le strade, e io non lo so perché non appartengo alla sua categoria. Scommetto che non farei fatica a digitare il suo nome su Instagram e scoprire che per hobby fa l’influencer anche lei, o almeno prova a diventarlo come le altre che sono nate naturalmente belle. Già me la vedo mentre scorrendo con il dito sullo schermo del suo iPhone sceglie le foto migliori da pubblicare, quelle che attirerebbero di più i ragazzi o gli uomini in generale. E alla fine lo trovo davvero il suo profilo. E’ curato e rispecchia una palette di colori ben precisa: si alternano foto ben illuminate dove indossa vestiti firmati sul beige o il bianco fingendosi spensierata, e altre in costume dove lascia davvero poco all’immaginazione. Non si vergogna mica, può permetterselo d’altronde. È una ragazza con un fisico asciutto, la danza le ha lasciato la pancia piatta. Attenta alla sua alimentazione, promuove il consumo di cibo sano anche sui social, ma mangia spesso al McDonald’s, si rimpinza di cioccolata e caramelle quando è di malumore o ha le mestruazioni e non prende un grammo neanche per sbaglio. Che ne sa lei di chi non trova mai la taglia giusta, di chi non si può immedesimare nel fisico secco dei manichini dei negozi. Il mondo è tutto suo. Nel frattempo però deve mantenere l’immagine di ragazza perbene e sufficientemente intelligente, perciò si è iscritta all’Università, alla facoltà di Medicina perché ci vanno tutti e si guadagna molto alla fine del percorso. Con poco stupore ma parecchia rabbia di chi come me studia davvero in quella facoltà spinta da una reale passione e non ha l’aiuto di madre natura, gli esami le vanno pure bene, vantandosi di prendere voti alti perché mette spesso camicette scollate. Un sorriso e un bel reggiseno push up in pizzo sotto la camicetta bianca è quello che basta a far girare la testa al professore di turno che annusa senza poter toccare. Ogni momento della sua vita è immortalato nelle stories. Attraverso un bel filtro vintage, frasi poetiche, fotografie estetiche la sua vita appare meravigliosa. Una vita, la sua, che oscilla tra il fingersi impegnata di giorno ed uscire per ballare la sera, passarsi una mano tra i capelli morbidi e profumati e avere un bicchiere offerto al pub. Carlotta non ha mai avuto un briciolo di difficoltà a socializzare, fin dai tempi della scuola. Ha trovato subito le amiche del cuore, a un passo dal suo banco, e sono rimaste sempre quelle dalle scuole medie. Non smettono di partorire idee discutibili come diciottenni ritardate, i loro argomenti sono frivoli, seguono le mode dei social e alzano a tutto volume i tormentoni estivi nelle macchinone che gli hanno regalato per il diciottesimo. Penso soprattutto a tutti quei maschi decerebrati che sbavavano dietro a Carlotta già dal primo giorno,  accecati da quegli occhi chiari che hanno fatto innamorare tutti a turno. E’ così che lei è cresciuta sentendosi una dea con il potere di spezzare cuori. È un hobby anche questo. A qualcuno però ha detto di sì, fino al punto da indossare al dito un anello più importante degli altri. Le dona proprio su quell’anulare, così elegantemente abbellito. Fossi nata io con delle mani così snelle, da smaltare a piacimento senza sembrare un pagliaccio. A me sono toccate invece quelle cicciottelle rosicchiate dal nervosismo. Nessun anello potrebbe fare bella figura se lo indossassi io. Lo vedo proprio questo fortunato, uno dei molti che l’ha cercata in privato e ha tentato di guadagnarsi la sua attenzione, e chissà se è grazie al fisico palestrato, ai regali preziosi, o perché esegue ogni suo ordine, la nostra bambola ha deciso di impegnarsi per sfoggiare il suo anello e vantarsene con le amiche. Certo, fino al prossimo ragazzo che stuzzicherà la sua curiosità. Non dura l’amore quando sei come Carlotta. Io l’amore non l’ho mai conosciuto, e ormai ho smesso di pure di cercarlo come una disperata. Scommetto che neanche Carlotta ha veramente provato questo sentimento, ma almeno lei ha una persona che sposterebbe mari e monti per renderla felice. Io potrei rimanere sola anche per tutta la vita e non importerebbe a nessuno. Non sono esattamente il tipo di ragazza con cui qualcuno ha mai pensato di passare del tempo oltre quello deciso dai ritmi della scuola o dell’università, sono quella che per essere descritta nessuno si azzarda a sfogliare altri aggettivi oltre “simpatica”, e sono soltanto quello. La simpatica che però in testa è tutt’altro che divertita. Io un filo di trucco non lo metto perché non ne sono capace, soffro di acne da anni, ho il viso tondo e il doppio mento, un seno prosperoso che mi gonfia, non mi vesto alla moda e ho non ho mai avuto capelli fluenti e folti. I miei anelli preziosi sono i ciondoli

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Masterclass Vita d’Altri: episodio cinque

In collaborazione con Cappelli a punta Racconto di Anastasia Morale Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto <<No, no. Aspetta, devi piegarlo così…>> Nonno Nino prese la pagina della cronaca nera e fece una magia, come quando sparivano le carte siciliane. Era anche detto Ninuzzo, ma a noi bambini era vietato chiamarlo così. <<Come mi sta?>> <<Grande,>> rispose <<Ma è meglio così, altrimenti la carta si strapperebbe.>> <<edi che alla mamma piacerà?>> <<Dovresti chiederlo a lei. Quand’è che ti vengono a prendere?>> <<Non lo so, Papà ha detto che in ospedale si perde sempre tempo.>> <<Mmmm…>> mugugnò, concentrato a fabbricare un altro cappellino. <<Quello è per Davide?>> <<No. Gli ho già detto che se ne vuole uno deve farselo da solo.>> Guardai la sedia su cui avrebbe dovuto sedersi Davide, poi verso la porta della cucina, da cui proveniva il brusio della televisione. Ero convinta che fuori in balcone si stesse meglio. Di sicuro lo preferivo al microclima tropicale che doveva esserci nell’altra stanza. Noi occupavamo l’unico spazietto lasciato libero dalle piante della nonna. Erano tutte verdi, con foglie molto grandi. Non c’erano fiori, in estate non ce n’erano mai. Posai entrambe le mani sul tavolino di plastica, mentre Internacional diventava nacional. <<Ma io non l’ho fatto da sola.>> <<Sì invece. Guarda la punta.>> Mi tolsi il cappello e lo misi sul tavolo, come una barca in secca. Se fatte con la carta, cappelli e barchette si somigliavano molto. <<È un po’ schiacciata,>> borbottai, come se dirlo a bassa voce potesse cancellare il mio errore. <<Perché era il primo. Tocca qua.>> <<Punge! È perché ne hai fatti tanti?>> <<Non alla tua età, ma con la pensione ho molto tempo libero. Sai che significa?>> <<Che non vai più a lavorare.>> <<Brava.>> <<Per questo non vuoi farne uno per Davide?>> <<Cosa?>> <<Il cappello. Se lo facessi tu pungerebbe, mentre se lo facesse lui la punta sarebbe un po’ schiacciata.>> Nonno Nino si grattò il naso; sembrava il becco di un gufo, lungo e un po’ ricurvo. Anche i capelli grigiastri e folti me ne ricordavano uno, di quelli smemorati e spennacchiati che si vedevano nei cartoni. Papà diceva che era colpa del cappello da detective che metteva per fare la sua passeggiata mattutina; non permetteva ai capelli di respirare. Aveva senso. <<Sì, perché si è arreso prima. O forse perché si annoiava.>> <<Ma non gli verrà mai una punta che punge, se non fa quelle schiacciate.>> <<Infatti.>> <<E se Davide si mettesse a piangere?>> <<Gli servirebbe da lezione; non puoi far rinsecchire la pianta e pretendere di prenderne i frutti.>> Aggrottai la fronte e mi rimisi il cappello. Il nonno aveva detto una cosa vera, ma non vedevo il legame tra le piante e i cappellini. In ogni caso, l’idea di Davide che si metteva a piangere non mi turbava affatto. Capitava spesso, anche se lui era più grande di me, e i grandi non piangevano mai davanti ai più piccoli. <<Io piango quando non mi vengono gli esercizi di matematica.>> <<Ti stai impegnando, almeno?>> <<Ci provo, ma la maestra mi fa sempre togliere il libro. Dice che sono troppo lenta.>> <<Mmmm… vorrei tanto parlarci io con questa…>> <<Antonio, ricorda l’undicesimo comandamento.>> Nonna Lina apparve come un fantasma, nonostante le infradito di gomma. Indossava una delle sue vesti svolazzanti a fiori, lunga fino al ginocchio. Era l’unica a chiamare il nonno così – una cosa da coppia, forse? – ed era anche l’unica a usare quel modo di dire così bizzarro. A quanto diceva Papà, significava non sono affari tuoi. All’incirca. <<Gioia, non ti avevo sentita. Sai dov’è Davide?>> <<Di là a guardare la TV,>> rispose seccamente. <<La picciridda mi stava giusto dicendo che…>> <<Ho sentito, non pensarci neanche.>> <<Ma… Se Vanessa non può… Insomma…>> mormorò il nonno, lanciandomi un’occhiata neanche tanto furtiva. <<Allora ci penserà Lorenzo, quando potrà. Mi sembra che anche lui abbia una testa e due mani, no?>> Lui fece una faccia strana e si mise a borbottare tra sé e sé, come l’acqua prima di calare la pasta. La nonna strinse gli occhi dietro le lenti tonde e spesse degli occhiali. <<Cos’è che hai detto?>> <<Va bene, come vuoi tu, Gioia.>> <<Mmmm… Mi era sembrato.>> A quel punto un forte scricchiolio proveniente dal corridoio rimbombò per tutta casa, subito seguito da un clangore metallico e una serie di passi pesanti e strascicati. <<È permesso?>> <<Enzo, di qua!>> Quando spuntò, mio padre mi sembrò più vecchio dei nonni. La visiera consumata del berretto della Marina Militare proiettava un’ombra sugli occhi scavati. Al dito della fede portava anche l’anello delle chiavi di casa nostra, impugnandole come se stesse per aprire la porta. Baciò la nonna sulla guancia, poi si avvicinò e mi diede una carezza sulla testa, ammaccando il cappellino. Non dissi niente, per via del suo sorriso disegnato male. <<E Vanessa?>> chiese la nonna. Nonno Nino si era ammutolito di colpo, ma aveva preso a tamburellare rumorosamente le dita sul tavolino. Con la coda dell’occhio vidi il suo piede fare su e giù, spingendo un pedale immaginario. <<Perde tempo,>> rispose Papà frettolosamente. Poi aggiunse: <<Sta aspettando i risultati.>> Infine mi guardò e mi diede un’altra carezza. <<Dai, la mamma ci aspetta.>> Più tardi, nell’ingresso, lasciai che Papà mi aiutasse a rimettere lo zainetto in spalla, anche se non ne avevo bisogno. Il nonno si grattò di nuovo il naso da gufo, poi mi diede un buffetto sul mento. <<Ricordati cosa ci siamo detti.>> <<Certo,>> risposi <<La prossima volta, facciamo altri cappelli di carta?>> <<Se vuoi. Oppure, potrei insegnarti a giocare a Scopa, che dici?>> Ci pensai un attimo. <<Dipende: barerai come hai fatto a Capodanno?>> La nonna non gli diede il tempo di rispondere. <<Undicesimo comandamento.>> Clicca sull’immagine per ingrandire IL MAGAZINE storia 06.01.23 Nacque a Torino la prima collana di libri economici d’Italia Spesso, i lettori si lamentano del prezzo troppo alto

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