Eredità
Racconto di Roberto Zito
Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d'altri.
Editing a cura di: Manuela A.De Quarto
L’ultimo scherzo me lo avevano fatto prima di morire.
L’arbre magique che aveva l’odore dello spogliatoio maschile di una palestra. Mio padre lo aveva appeso sul cruscotto il giorno stesso in cui aveva comprato quell’auto e non l’aveva più tolto. Aveva smesso da tempo di emanare il suo odore di palle sudate e detersivo, eppure quell’aroma mi si era infilato nel naso e non se n’era più andato. Era sopravvissuto solo quello. Il resto si era schiantato giù per una vallata ricoperta di nevischio. Della Fiat Uno dei miei genitori non era rimasto nulla, solo un ammasso di lamiere accartocciate.
E quello stupido arbre magique.
Ero rimasto orfano, e l’unica eredità che mi avevano lasciato era un deodorante per auto.
A Harry Potter avevano lasciato un caveau pieno di soldi. A me, questo.
Sarebbe più semplice se dicessi che in fondo con i miei non avevo un legame così stretto. Che erano due genitori insensibili, distanti, incapaci di qualsiasi slancio affettivo. E invece quei due erano un vero spasso. Mio padre poi, quello era un idiota patentato, pronto allo sfottò verso chiunque in ogni occasione, capace di dire sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato, campione olimpionico di regali brutti, dai profumi al sapore di merluzzo ai maglioni color senape andata a male. Sapeva sdrammatizzare quando sentiva che l’aria si faceva pesante, sapeva stemperare i conflitti e intromettersi in ogni discussione per buttarla in caciara. Magari, se la stava ridendo fino all’ultimo secondo di vita, prima di piombare su quel fottuto strapiombo in mezzo ai boschi dei Nebrodi. Stava rientrando da una cena con mamma, era il loro decimo anniversario di matrimonio. Io me lo ricordo il loro matrimonio, ero già in seconda elementare e saltai una noiosissima mattinata di dettati e addizioni per andare in una spiaggia e vedere i miei che si sposavano, vestiti come due hippie, a bordo di un vecchio pulmino Wolkswagen.
Erano così, fuori dal mondo, fuori dal tempo.
Forse, era tutta una ribellione verso i loro stessi genitori. Che pareva non vedessero l’ora di indossare l’abito più lugubre possibile per il funerale dei loro figli. Una volta sepolti, mi strinsero in un abbraccio arrugginito, gelido come una tenaglia, e mi scortarono fino alla mia nuova vita come un condannato del miglio verde. Orfano morto che cammina.
La mia destinazione era la casa della mamma di mio padre, che pareva la magione della signora Rottenmeier. È incredibile come a volte le mura di un’abitazione prendano la conformazione dei suoi stessi abitanti. Quella casa aveva soffitti che si allungavano come il collo di mia nonna quando mi squadrava dalla testa ai piedi. La carta da parati si increspava come il suo labbro arricciato, mentre osservava i miei abiti spiegazzati, le sneakers con i lacci slacciati, la catena che penzolava tra le tasche bucate del mio unico paio di Denim. I mobili erano solcati da venature che pulsavano come le sue arterie, quando mi sentiva ciondolare con i piedi umidi sul pavimento in marmo caramellato. Nell’aria poi c’era lo stesso odore del suo fiato, un miscuglio di broccoli bolliti, incenso e patchouli. L’unico suono che era ammesso nella casa era il rumore della sua vecchia Singer, la macchina da cucire a pedali con cui si era pagata quella magione polverosa, mentre mio nonno gestiva i terreni di famiglia, prima che li cedesse per farci costruire una decina di Eurospin. Pareva ossessionata dall’idea di cucire qualsiasi cosa, dalle vecchie lenzuola alle tende del bagno, fino a cucirmi i jeans nella notte, mentre dormivo, incapace di accettare qualsiasi strappo nella sua esistenza rammendata.
A me non restava che passare le giornate stringendo l’arbre magique che ormai si era impregnato dell’odore di quelle mura, bagnandolo col rimorso di non essere salito in macchina con loro. Per distrarmi, presi a leggere qualsiasi cosa trovassi in quella casa. E l’unica cosa che stava tra gli scaffali era l’enciclopedia del Fascismo. Erano dei tomi con la copertina color bordeaux e il font che pareva lo stesso dei cinegiornali Luce. Cominciai dalla A di Almirante e non mi fermai più, divorando ogni parola senza alcun interesse se non quello di fuggire da lì. Diamine, persino il regime fascista pareva un paradiso, in confronto a quella dittatura di merletti.
Inizialmente lei non ci faceva caso, finché me ne stavo in silenzio a leggere dell’assassinio di Matteotti. Ma si incazzò di brutto quando notò che facevo le pieghette sulle pagine, per non perdere il filo. Non avevo nulla da usare come segnalibro, e nonostante i suoi rimproveri continuai a stropicciare quei fogli, che evidentemente erano l’unico lascito di mio nonno. Quando non ne poté più, mi intimò di smetterla. Io continuai a leggere, spiegazzare le pagine e inumidirle con le dita, come se fosse l’ultimo atto della nostra guerra. A quel punto lei pestò i piedi, sembrava pronta all’assalto. Invece si voltò verso il tavolo del salotto, afferrò un centrino, lo portò verso la macchina da cucire, cominciò a pestare i pedali con forza. Infine, mi diede in mano un segnalibro. Era fatto della stessa stoffa del centrino, ne conservava ancora i ricami con sopra i mandali circolari.
Lo tenni in mano per un po’, incredulo. Era davvero capace di farci qualsiasi cosa, con quell’aggeggio.
Non seppi fare altro che mormorare un timido «Grazie» e tornare al volume quinto dell’Enciclopedia, dalla P di “Patti Lateranensi” alla S di “Salò”.
Quando terminai l’enciclopedia, passai a leggere le riviste che venivano spedite per posta alla nonna, rimasugli degli abbonamenti lasciati dal nonno e che lei non sapeva come disdire. Panorama, L’Espresso, Sorrisi e Canzoni, settimanali che sarebbero rimasti incellofanati se non li avessi presi e letti con voracità, imparando a memoria i testi delle prossime canzoni di Sanremo. Infine, passai ai testi sacri nascosti nei cassetti della nonna: Antico Testamento, Nuovo Testamento, Bibbia, Libro dell’Apocalisse, le Encicliche papali.
Mi sarei messo pure a leggere gli scontrini, se fosse servito a farmi evadere da lì.
E lei lo aveva capito. Aveva intuito che c’era qualcosa in me. Una fame disperata di storie. Di parole. Di versi. Di conoscenza. Di vite altrui. Lontane dalla mia.
Fu mentre stavo finendo una chilometrica biografia su Wojtila che lei si accostò a me con in mano quello che pareva un diario sgualcito. Era ricoperto da una finta pelle di cuoio, sgualcito in più punti, chiazzato di macchie scolorite. Le pagine al suo interno parevano incollate e irrigidite, come se fossero impregnata di umidità antica.
Mi chiese di leggerlo. Era il suo diario, di quando era ragazzina. Non l’aveva mai mostrato a nessuno, nemmeno a mio nonno. Lo presi con aria perplessa, mi accovacciai sul divano tenendo il segnalibro ricamato da lei. Iniziai a leggerlo, decifrando a fatica quella scrittura sghemba, piena di errori e cancellature. Pensavo di trovarci dentro la storia della mia famiglia, magari del primo incontro con mio nonno, in cuor mio speravo di scoprire qualcosa di più su mio padre.
E invece, il diario raccontava di una scappatella tra un’orfana mollata in un collegio di suore di Catania, e un pescatore di Acicastello, nell’estate del 1946. E della notte in cui quell’orfana desiderosa di amore perse la verginità su una barca a largo della costa ionica. Una notte piena di stelle e speranze, sparse in piccole gocce sul suo ventre.
Oh.
Mio.
Dio.
Alzai gli occhi da quelle pagine, cercando di non visualizzare quell’immagine. Sperai che fosse uno scherzo, come quelli che mi faceva spesso papà. Non lo era. Mi accorsi che lei era rimasta per tutto il tempo in un angolino del salotto, a osservarmi con la coda dell’occhio. In attesa. Quando incrociai il suo sguardo, non riuscii a mentire. Le dissi che l’avevo trovato, uhm, interessante? Sì, interessante, cioè, inaspettato ma bello. Sì, cioè.
Sperai che se la bevesse.
Ma lei si era fatta sempre più vicina, mi scrutava in viso, portò la mia mano sopra la copertina del diario, disse in un sussurro rauco che pareva il suo ultimo desiderio: «Scrivila. Scrivi ‘sta storia. Tu ‘u po’ fari, solo tu».
E mi consegnò il suo diario. Insieme a quel segnalibro, che uso ogni volta che leggo qualcosa. Qualcosa che non sia l’elenco di quei maledetti fascisti.
Quando alla fine mi lasciò anche lei, portai via con me quel segnalibro, insieme all’arbre magique dei miei genitori. Non proprio l’eredità che mi aspettavo dalla mia famiglia, ma me ne hanno lasciata una ancora più importante. Un dono che mi permette di farli rivivere ancora. Per sempre. In ogni personaggio che immagino. In ogni storia che creo.
Ma la storia della prima volta di mia nonna, quella col cavolo che la scrivo.
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