Febbraio 2023

L’orrore delle case Magdalene e lo scandalo di una modernità che lascia ancora indietro le donne

C’è una storia che vale la pena essere ricordata e raccontata, non solo perché riguarda il passato più recente, ma soprattutto perché può fungere da monito per tutte le donne contemporanee. Stiamo parlando delle Magdalene House, le Case Magdalene, residenze-prigioni attive in Irlanda a partire dal XIX secolo e rimaste aperte sino al 1996. Fino a quell’anno, infatti, le donne nubili e incinte, o considerate promiscue, venivano incarcerate a vita in queste strutture di proprietà della Chiesa Cattolica. Quello delle Magdalene House fu uno scandalo cominciato nel lontano 1837 e continuato per quasi duecento anni, fino al 1990 inoltrato. Perché, per quanto il mondo e le società occidentali siano progredite, le donne sono spesso state lasciate indietro, come la presenza di queste prigioni testimonia. Entrare era drammaticamente facile. Uscirne? C’era solo un modo Non dovevi aver commesso un crimine per essere rinchiusa in una casa Magdalene: bastava che in un borgo o in un quartiere si spargesse la voce sulla presunta – non importa se reale o inventata – promiscuità della donna per segnare il suo destino che, dal momento dell’ingresso in un simile luogo, sarebbe stato segnato da una schiavitù totale nei confronti delle suore. Per quanto in molte abbiano provato a uscirne, la maggior parte delle donne veniva ripresa quasi immediatamente e convinta a suon di isolamenti e percosse a non tentare più la fuga. L’unico vero modo per scampare a quelle case era infine la morte. La vita per le donne delle case Maddalena era durissima: servitù totale e fatiche fisiche immani, punizioni corporali crudeli che spesso portavano alla morte… e ancora malattie, malnutrizione, depressione che spesso sfociava nel suicidio: l’opera di tortura messa in atto dalle suore – anche se loro la chiamavano redenzione – era così completa. Manodopera gratuita, anche, al punto che spesso le suore accettavano presso le case Magdalene anche donne generalmente considerate virtuose, ma scomode ai parenti per i più svariati motivi, come per esempio un’eredità o un secondo matrimonio contratto dal padre di giovani ragazze orfane di madre. Tutto ciò non importava alle suore e alle sfere alte della politica, egualmente interessate a finanziare queste case-prigioni. Bastava una piccola mazzetta affinché qualunque donna venisse ammessa nelle case Magdalene, a prescindere dalle sue presunte colpe. Fonte: https://www.viaggiatoriignoranti.it/2018/11/la-terribile-storia-delle-case-magdalene.html Per quanto riguarda invece le nubili incinte, era praticamente certo che, una volta partorito, i bambini sarebbero stati venduti (anche se, ancora una volta, le suore parlavano di adozione) a coppie sterili o a contadini alla ricerca di futura manodopera gratuita. Adesso che le case Magdalene sono state destituite, in molte di queste residenze le recenti opere di restauro e riammodernamento hanno fatto sì che nei giardini venissero trovati innumerevoli cadaveri di donne e neonati, al punto che di recente sono esplosi diversi scandali nazionali e internazionali. Innumerevoli gli irlandesi che vogliono far luce non solo sulle colpe del clero, ma anche sul legame tra i governi che si sono succeduti negli anni e le sfere alte dell’apparato religioso irlandese. Foto: https://www.mirror.co.uk/news/gallery/eerie-pictures-show-life-inside-10107901 Possibile che, fino agli anni 90, nell’epoca della riconquista dei diritti civili e del raggiungimento di nuove libertà sessuali, in un paese evoluto come l’Irlanda si sia perpetrato un tale orrore? Presto disponibile

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Masterclass Vita d’Altri: episodio due

In collaborazione con Pendoli Racconto di Tiziana Consoli Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Conta le stelle. Una alla volta, piano piano. Una stella, chiudi gli occhi. Inspira. Trattieni. E ora soffia fuori, piano piano. Occhi chiusi, brava. Due stelle. Chiudi gli occhi, inspira. Trattieni. L’odore di disinfettante non riusciva a coprire quel puzzo di vecchio che impregnava ogni cosa in quei corridoi, anche le persone. Soffia fuori, piano piano, occhi chiusi. Il profumo di azalee iniziava a sparire da Doso, ma se sprofondava il naso abbastanza nella sua pancia ovattata i fiori erano ancora lì, almeno loro. Tre stelle. Chiudi gli occhi. Inspira. Le sue gambe, penzoloni dalla sedia, si alternavano avanti e indietro, come due pendoli dello stesso orologio, per tenere il tempo della propria apnea. «Ehi, rieccomi. È uscito qualcuno dalla stanza mentre ero via?» «No, nessuno.» Trattieni. «Però! Se la prendono proprio comoda questi, ti pare? Vorrà dire che dovremo aspettare su queste belle sedie di plastica ancora per un po’. Tieni, ti ho preso un pacchetto di m&m’s dal distributore, e anche un succo. Vuoi che te li apro io?» le disse sventolandoli come fossero pon-pon. L’aver portato Doso doveva aver dato l’impressione che fosse ancora una bambina. Lo strinse forte, fino a nascondere la tutina azzurra dell’elfo sotto al braccio sinistro e facendogli sparire la testa imberrettata tra lo schienale di plastica e l’ascella. «Non mi piacciono quelle con le noccioline!» Non la guardò. «Ah…mi spiace, non ne avevo idea. Allora li metto da parte …ma se ci ripensi ti basta chiedere.» La sconosciuta numero uno infilò le merende nella borsa e le si sedette accanto, troppo accanto, costringendola a sollevare i piedi sulla sedia e incrociare le gambe, così il suo ginocchio avrebbe mantenuto la distanza tra loro due: non bisogna stare troppo vicino agli sconosciuti. Osservò la sconosciuta mentre lanciava borsa e cartellette piene di famiglie sul freddo sedile vuoto accanto a loro. Chissà quanti erano stati i culi con la mamma morta che avevano aspettato su quella stessa sedia per ore e ore prima che qualcuno decidesse i loro destini sfogliando, per ben dieci minuti, le frasi contenute in cartellette scritte da compratori di m&m’s e succhi. Soffia fuori, piano piano. Conta le stelle. Le toccava con le dita che venivano pizzicate dalle punte diamantate: c’erano tutte, anche in mezzo a quel corridoio vecchio e chiassoso. La porta di fronte si aprì di qualche centimetro mettendo in pausa la semivita che si recitava in quel corridoio. Pochi istanti dopo, dalla stanza uscì un culo qualche anno più grande del suo: andava già alle medie, di sicuro. Anche lui era accompagnato da una sconosciuta, loro però sorridevano: stava tornando a casa, di sicuro. Era brava a capire le cose. Chissà, forse un papà aveva trovato lavoro? A quello c’è rimedio e puoi tornare a casa, rifletté, se invece ti tiene chiusa al sicuro con la mamma, nella casa al piano di sotto, pare che non possa rimediare o almeno così volevano farle credere. Occhi chiusi. «Amore, te l’ho già detto: se non siamo mai stati a casa loro, sono sconosciuti.» «Ma se mi dicono il loro nome, non sono più degli sconosciuti, giusto mamma?» «No, amore, restano sempre sconosciuti.» «Ma la signora Anna, la padrona di Billy, noi la salutiamo sempre, però non siamo mai stati a casa sua. Lei è una sconosciuta?» «No, lei non lo è.» «Allora non ci capisco niente! Non ha senso!» – Silenzio. Stelle in avvicinamento. Faccia davanti alla mia. – «Proviamo così: se mamma non li conosce, sono sconosciuti.» – Pausa – «Adesso ha più senso?» – Sorriso. – «Si.» – Bacio in arrivo. – «Ottimo.» «Vittoria Ristalli?» La sconosciuta numero ventitré le fece riaprire gli occhi. Quella donnina era poco più alta del pomello della porta da cui era sbucata e cercava di guadagnare qualche centimetro cotonando i capelli tinti di rosso: per qualche secondo si ricordò che c’erano anche cose buffe nel mondo. «Sì, è qui con me. Sono la dottoressa Virginia Locaro. Sono la sua referente.» La sconosciuta numero uno le ricordò che non c’erano cose buffe per lei. «Tra dieci minuti vi facciamo entrare. Il giudice deve terminare di firmare alcuni atti e poi toccherà a voi.» Richiuse la porta. Quattro stelle. Chiudi gli occhi. Inspira. «Ok.» La sconosciuta numero uno si voltò a guardarla. «Sei nervosa?» Lei alzò le spalle. «Sarebbe normale se lo fossi, ma stai tranquilla, Vichi…» «Vittoria.» «Sì, scusa. Vittoria, ti stavo dicendo…che sarebbe normale se lo fossi, ma il giudice ti farà solo qualche domanda per sapere come stai, se ti trovi bene con la famiglia Tricomi, cose così.» Non le credette. «Ma io voglio tornare a casa!» «Tesoro, ti…». «Vittoria!» Trattieni il respiro. «Sì, Vittoria, d’accordo.» La sconosciuta numero uno avvolse le proprie mani attorno alle sue. «Non possiamo farti tornare a casa tua per ora, te l’ho spiegato.» «Ma Ivan però è rimasto lì, perché io non posso?» «Ivan è grande, tes… Vittoria, e lui può restare a casa solo.» Fece saltare il suo culo giù dalla sedia liberandosi da quelle manette, stritolò Doso e strinse le stelle tra le dita. Strillò. «Allora se è grande posso stare con lui!» La sconosciuta numero uno rimase immobile con gli occhi fissi in quelli suoi e non si arresero. Soffia fuori, piano piano. «Purtroppo non è abbastanza grande.» Chiudi gli occhi. «Fai la brava, ok? E non ti dimenticare Doso, ha troppa paura quando è solo. Mi raccomando: stringilo forte forte quando senti che ha paura, ok?» – Ombra accanto alla porta. Moccio. Fazzoletto in avvicinamento. Faccia davanti alla mia. – «Ivan, ma che razza di nome è Doso?» «Ma come, che nome è? Doso è un nome fantastico! È il diminutivo di Morbidoso, Morbi-Doso. È geniale!» «È stupido.» – Broncio. Sorriso. Occhi sfuocati. Braccia in avvicinamento. Freddo sul collo.

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Tre serie TV turche che non potrai fare a meno di amare

In principio fu Cherry Season. Negli assolati pomeriggi estivi del 2014 Özge Gürel e Serkan Çayoglü iniziarono la loro travagliata storia d’amore sulle rive del Bosforo. E fu amore anche per gli spettatori (ma soprattutto le spettatrici) del nostro paese, che dimostrarono di gradire così tanto questa serie che Mediaset l’anno successivo decise di replicare con ”Bitter Sweet”, medesima protagonista, insieme stavolta a un altro bellissimo, e oggi molto famoso attore, Can Yaman. Personalmente, per quanto il fascino degli attori turchi fosse innegabile, iniziai a guardare la mia prima ”dizi” in seguito a un promo che mostrava i bellissimi panorami di Istanbul, città che non avevo ancora visitato ma nella mia lista dei posti da vedere. Dopo qualche puntata mi appassionai alla storia di ”Daydreamer – Le ali del sogno”e, complice anche stavolta la carenza di contenuti interessanti nella stagione estiva, pensai di cercare in rete le puntate non ancora trasmesse in Italia. Fu allora che compresi la vastità delle produzioni turche, della quale le serie proposte in Italia non ne sono che la punta dell’iceberg. Ambientazioni glamour, fotografia scintillante e protagonisti bellissimi, oltre naturalmente a trame cariche di pathos, ben intrecciate con la cultura e le tradizioni turche: ecco i segni distintivi della nuova frontiera televisiva. Da guardare rigorosamente in lingua originale (ovviamente con i sottotitoli). Ma quali sono le serie più rappresentative di questi ultimi anni? Non c’è abbastanza spazio per parlare approfonditamente di tutte, ma ecco 3 serie tv turche perfette per le fan dei romance Kiralik Ask – Amore in affitto I protagonisti sono Defne, cameriera in una tavola calda che, a causa di un malinteso, si ritroverà a essere baciata appassionatamente da un cliente, Ömer, titolare di una maison di calzature, che approfitta dell’ingenua ragazza per far credere alla sua accompagnatrice di essere già impegnato. Da questo malinteso si dipanerà la storia d’amore dei due tra intrighi, sotterfugi e tanto dolore. Ci sarà addirittura un matrimonio, annullato il giorno dopo. Una delle più belle serie romantiche. CUKUR (LA FOSSA) Yamaç Coçovali, figlio minore del capo di una famiglia della criminalità organizzata, si allontana dal quartiere di Cukur per vivere una vita più onesta. Si innamora di Sena, che sposerà dopo pochi giorni a Parigi. La morte del fratello maggiore lo obbligherà a lasciare Sena senza una spiegazione per tornare dalla sua famiglia. Ma grazie a una serie di circostanze i due si ritroveranno, e lei deciderà di restare accanto al marito.Serie ruvida, toccante, travolgente, chi entra nella fossa non riuscirà più ad uscirne. YARGI (GIUDIZIO) Ceylin, avvocatessa caparbia e tenace, si scontra con Ilgaz, giovane pubblico ministero tutto d’un pezzo. Nonostante la diversità di vedute i due si trovano a dover collaborare in un caso di omicidio, nel quale si scopre che la vittima è la sorella di Ceylin, scomparsa qualche giorno prima. Tra colpi di scena e indagini sempre più pericolose i due saranno costretti a sposarsi, affinché Ilgaz non sia costretto a testimoniare contro Ceylin, rea di aver usato metodi poco ortodossi per procurarsi delle prove a carico dei sospettati. Serie tutt’ora in onda che mantiene alto lo share ancora oggi, dopo cinquantadue puntate di circa due ore e mezza. E tu, hai mai visto una serie tv turca? Scrivicelo nei commenti MAGAZINE storia 24.02.22 Quattro posti da visitare nella magica Agrigento A volte nulla come un piccolo viaggio può aiutarci a riprendere il filo della nostra vita, specie in un periodo tanto buio e difficile come Read More Cinema Tre serie TV turche che non potrai fare a meno di amare 15.02.23 racconti gratis Masterclass Vita d’Altri: episodio uno 11.02.23 storia La leggenda a cui Torino deve il suo nome 07.02.23 storia Lo chaperon in epoca vittoriana 06.02.23

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Masterclass Vita d’Altri: episodio uno

In collaborazione con L’ombra di una giacca Racconto di Lisa Luna Platania Questo racconto è stato ideato e scritto da uno degli allievi della scuola di Scrittura e Storytelling Viagrande Studios, in occasione della masterclass Vita d’altri. Editing a cura di: Manuela A.De Quarto Uno, due, tre, quattro. Le onde si infrangevano quattro volte lungo la scogliera, coprivano i massi con coperte di schiuma e subito si ritiravano, con tutta la leggerezza di cui erano capaci. Lo facevano uno, due, tre, quattro volte. Elia le aveva contate. Seguiva le onde con lo sguardo, costrette dalla marea a navigare per ore, per poi vederle sfogare moti di rabbia su gelidi massi sedentari. Così, per tutta la vita. Osservava dall’alto, Elia, dall’alto del molo di cemento su cui lui e il pescatore erano seduti, l’uno accanto all’altro. Attorno a loro, distese di mare coprivano tutto. L’odore salmastro dell’acqua marina gli pizzicava le narici, inducendolo a grattarne appena il contorno con l’unghia dell’indice. Con l’altra mano, reggeva un panino troppo vuoto. “Uno, due, tre… quattro!” Elia curvò la schiena, facendo dondolare le ginocchia penzoloni oltre il bordo del molo. Un gabbiano dal becco un po’ storto si posò per un attimo sulla superficie dell’acqua, acciuffando un pesce distratto. “Cinque?” A quel punto, il pescatore tirò fuori la lenza della canna da pesca. Accanto a lui, un secchio lindo, pieno d’acqua salata, ancora vuoto. Niente. “Una scatoletta di tonno?” Elia fissava quella scatoletta, chiedendosi per quale motivo si trovava lì, in quel momento, stretta nell’amo colorato. Il pescatore tirò appena su il mento, staccò il rifiuto e lo fece scivolare dentro il secchio. Elia immaginò i banconi del mercato pieni di pesci metallici, che se li stringevi tra i denti te li spaccavi tutti e alla fine diventavi di metallo pure tu, come in un contagio di massa. Aveva già letto una cosa del genere in un libro, tempo fa. “Ti avevo detto di andare via.”“Non posso. Papà dice che per diventare veri uomini bisogna imparare l’arte della pesca!” Il pescatore annuì. Sotto gli spessi baffi chiari, le sue labbra screpolate erano strette tra loro, la pelle un po’ macchiata ricoperta di sale e oceani dimenticati. I pochi capelli che aveva sul capo erano nascosti da un berretto grigio, e le sue braccia erano scoperte anche se faceva freddo, dove potevi notare i segni di un’abbronzatura forzata. Magari era un marinaio in pensione, pensò Elia. In tal caso, però, non avrebbe dovuto sapere che sarebbe stato più facile pescare i pesci con quelle grosse reti che tiravano via tutto quello che trovavano, comprese quelle alghe verdastre che un po’ gli facevano paura?   “Eri un marinaio, prima?”“Prima?”“Sì, dico, tanto tempo fa.”“Dedurre l’età di una persona non è carino.”“Non è vero, questo vale solo per le donne!” Anche le reti da pesca, in effetti, un po’ lo spaventavano. Questo perché spesso si ritrovava a immaginare di essere uno di quei pesci intrappolati lì sotto, ed anche se i pesci non avevano ali era come tarpare le ali ad una farfalla. Per dire. Un po’ come quando suo padre gli diceva che per essere uomini bisognava fare qualcosa, essere qualcuno o semplicemente essere. O non sarebbe stato nessuno, e le sue parole in fondo erano un po’ come le reti da pesca, dove si ingarbugliavano i pensieri, dove si ingarbugliava Elia. Uno, due, tre, quattro. Il pescatore tirò fuori la lenza dall’acqua. Elia salutò con la mano le onde che si ritiravano. “Un orologio da taschino? Chi è che indossa un orologio da taschino in un posto come questo?” Il pescatore staccò l’orologio dall’amo e, invece di cacciarlo nel secchio, se lo rigirò tra le mani. Riconobbe la marca, quest’ultima raffigurata dalla stampa in rilievo di una piccola aquila con quattro ali. Spinse un pulsantino e la aprì, sotto gli occhi attenti di Elia che ora osservavano il quadrante dal vetro rotto, le lancette spezzate in due, i colori sbiaditi dal tempo. “La particolarità di questo orologio è che, oltre allo scoccare delle ore, tiene conto della posizione in cui ti trovi.” Detto questo, con l’indice indicò il quadrante più stretto, quello vicino all’orologio. Elia strabuzzò gli occhi e, avvicinando il volto verso l’oggetto appena pescato, si abbandonò ad un sospiro pregno di sorpresa. “Quindi anche le bussole possono perdersi!”“Ma di cosa parli, le bussole non possono mica…”“Guarda qui!” Ed Elia poggiò un dito verso la freccetta impazzita, che non aveva più idea di dove andare, né dei consigli da offrire. Una bussola cos’era, dopotutto, se non una di quelle anime senza sepoltura, prive di una tomba su cui poter invitare le persone a piangerci sopra? Quando il vento taceva, quella diventava una città senza tempo. Dal cielo piangevano lacrime di ghiaccio, e ricoprivano tutto, anche il secchio, troppo pulito per contenere solo della spazzatura. Uno, due, tre, quattro. Elia salutò con la mano le onde che svanivano contro gli scogli. “Signor pescatore, secondo te Elia è un nome da femmina?”   Il pescatore non rispose subito. Se ne stava a guardare il mare, per lui inarrivabile se non per la canna da pesca che stringeva tra le mani, simili a due cortecce nelle cui insenature sembrava scorrere dell’acqua gentile. I suoi occhi erano tanto piccoli da risultare inesistenti, tutti nascosti dietro palpebre troppo pesanti. “Elia è un nome come un altro. Suona bene.”“Suona bene?”“Nel senso che quando lo si pronuncia il suono è più delicato. Più dolce di un Giovanni, ad esempio.”“Tu ti chiami Giovanni?” Il pescatore sospirò lentamente sotto gli spessi baffi, annuì e tirò su la lenza.Il panino, adesso, era stato riavvolto nella carta e adagiato sull’asfalto umido. Le onde iniziavano a farsi più insistenti, bagnando appena il cuoio delle sue scarpe troppo adulte. La verità era che non le voleva, quelle scarpe, come non gli importava di indossare quella giacca e quel cappello, e quegli stupidi distintivi che sfoggiava sull’abito e che dopotutto non gli riconoscevano nulla, a giudicare dal fatto che erano falsi tanto quanto i veli dell’uomo di cui

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La leggenda a cui Torino deve il suo nome

Torino è una città decisamente magica, e anche la leggenda che diede origine al suo nome lo è.  Ma perché proprio Torino? Leggi l’estratto di Follow The stars, il nuovo historical romance ambientato a Torino di Tatiane Paiva, per scoprirlo La leggenda narra che nell’antichità un drago minacciò le mura di Torino. Stanchi di vivere nel terrore, gli abitanti decisero di scatenargli contro un’altra bestia di eguale forza, che avrebbe avuto il compito di sconfiggerlo. Il prescelto era un toro e, per renderlo ancora più forte, i cittadini fecero sì che si ubriacasse con del vino rosso. Con tutta la forza che possedeva, il toro riuscì a colpire fatalmente il drago attraverso l’uso del suo corno, poco prima di morire anche lui.In segno di gratitudine verso quell’incredibile eroe, l’immagine del coraggioso animale compare ancora oggi nello stemma della città, e dal salvatore derivava anche il nome di Torino, simbolo di forza, tenacia, coraggio e libertà. E tu, sapevi perché Torino si chiama così? Faccelo sapere nei commenti e non dimenticare di condividere l’articolo se ti è piaciuto.  Precedente Successivo Sarà un MM il nuovo romance di Sonja G.Rosenkov Torino, 21 Gennaio 2023 Comunicato stampa Sarà un MM il nuovo romance di Sonja G.Rosenkov, Read More Nuova collaborazione Land Editore con Viagrande Studios Land editore è felice di annunciare che il legame tra Torino e la Sicilia sta Read More Brescia Irlanda sola andata: presentazione di Barbara Bonzi Un nuovo arrivo made in Land Editore sarà in libreria nei prossimi mesi. Stiamo parlando Read More

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