Francesca Redolfi

I nostri libri felici

Di Francesca Redolfi  Per lungo tempo ho pensato a un romanzo come all’ultimo libro felice. Era un fantasy senza pretese, che probabilmente se avessi letto in un altro momento avrei dimenticato presto. Invece fu l’ultimo libro che lessi prima di un periodo negativo. Ricordo dove mi trovavo e con chi quando lo leggevo. Ricordo perfino l’angolazione della luce. Mi rimase, quel libro, come un dolce ricordo del “prima”, come spesso succede quando ammantiamo qualcosa di un’aura particolare solo perché è avvenuta lì, prima del precipizio, prima della caduta. L’effetto nostalgia Li chiamo i libri-nostalgia. O trigger, per usare un linguaggio attuale. Sono quelli che ci ricordano un momento felice o significativo della nostra vita. E che amiamo proprio per questo, a prescindere dalla loro qualità letteraria, dal nostro gusto personale. Quando pensiamo a quel romanzo, il pensiero corre al momento in cui l’abbiamo letto. In cui eravamo quella persona. In cui era appena accaduta una cosa, o non era ancora accaduta.    Sono romanzi che amiamo nel ricordo, perché li abbiamo letti proprio lì, in quel frangente. Anche se non sono i libri migliori che abbiamo letto, li custodiamo nella memoria con affetto per ciò che rappresentano. Un legame con la nostra identità, con il nostro percorso. Magari sono libri letti durante la scuola o l’università. Nelle ore vuote di un viaggio. O in un momento di gioia. O forse sono stati inconsapevoli àncore in un momento di dolore. Così, se dovessimo tornare a leggere quel romanzo, non lo faremmo con lo stesso spirito di allora. La trama magari non ci sembrerebbe più così avvincente, troveremmo forse lo stile più piatto, perché il valore che ne traiamo è legato più ai ricordi che evoca che al contenuto letterario stesso. È il potere della nostalgia. Quella cosa che ci fa dire: non lo dimenticherò.   Libri che amiamo, libri che ti cambiano E poi ci sono gli altri. Sono i libri che abbiamo letto e amato, e che avremmo amato in qualsiasi momento li avessimo letti. Restano le nostre pietre miliari. È come se, quando sfogliavamo quelle pagine per la prima volta, ci avessero detto: mi ricorderai. Anche tra decenni, ti ricorderai di me. Così, Viaggio al termine della notte mi fece compagnia nei miei vent’anni, in brevi notti d’Africa. Il Kurtz di Cuore di tenebra mentre mi appassionavo di cinema e guardavo avidamente Apocalypse Now. Ero a Lisbona e bevevo limonata con Pereira quando mi innamoravo dei giornali stampati e di una rivoluzione. Tiravo notte fonda con Lisa Kleypas, e passai giornate incatenate a un cavaliere in una Russia assediata dalle truppe nemiche. Ne ho tanti altri. Una lista che talvolta con mia grande felicità si aggiorna, aggiungendo romanzi che entrano nella cerchia degli eletti. Sono i libri che amo, e li associo a certi momenti della vita non perché in quel momento mi sia accaduto qualcosa di particolare. Ma perché sono stati loro a creare un impatto in me. Un cambiamento. Spesso ne siamo quasi gelosi. Quasi fossero parte di noi. Quando lessi I ragazzi dello zoo di Berlino avevo tredici anni e non ero assolutamente pronta per ciò che avrei trovato in quelle pagine. Mi diede l’effetto di un pugno allo stomaco. Quello non era certo il libro adatto, ma non lo sapevo. Eppure fu anche l’età in cui lessi Mel. In cui mi innamorai delle storie di Christopher Pike e di Bianca Pitzorno. A quei libri penso con affetto, perché furono quelli che mi fecero innamorare della lettura. Furono loro a determinare un cambiamento.   Il libro giusto al momento giusto   Certi libri poi ci piacciono solo perché siamo predisposti, perché siamo pronti a leggerli in quel momento preciso della nostra vita. Perché quel libro era proprio quello che ci voleva in quel periodo. A volte vogliamo qualcosa di leggero, altre cerchiamo apposta un tema che si incontri con il nostro stato d’animo. Che ci dica le stesse cose che sentiamo noi.   Cosa si prova, ultimo libro di Sophie Kinsella, parla di un tema così vero, così difficile, che penso non ci sia un periodo adatto per leggerlo. L’ho vissuto con sofferenza dalla prima all’ultima pagina. Non era il momento giusto, ma forse non lo sarebbe mai stato.   Un libro ci parla in un modo che va oltre la lettura. Non è solo la trama che ci coinvolge, ma è il modo in cui quella storia, quei personaggi, quelle parole si intrecciano con la nostra esperienza, il nostro modo di vedere la vita, le nostre convinzioni e valori. E mentre alcuni libri entrano nel nostro cuore solo per un breve periodo, altri, lo sappiamo, sono destinati a restare con noi per tutta la vita.   Domanda: quali sono i vostri libri-nostalgia? E quali i libri che amerete per sempre? Quali libri cercate in questo periodo della vostra vita?   Guarda su Amazon Crescere dei bambini in fabbrica, in uteri artificiali, e quando è il momento di farli nascere premere semplicemente un pulsante e ritirare il “prodotto”. Un’idea a dir poco inquietante, che fa pensare a realtà distopiche rappresentate in film come Matrix e in opere di letteratura sci-fi.  Eppure sembra molto realistico il filmato diffuso lo scorso anno e rimbalzato su ogni testata mondiale che parla di Ectolife, la «prima struttura al mondo per uteri artificiali».  Chiariamo subito che si tratta di un fake, almeno per ora. Quel progetto non esiste ancora, se non come concetto nella fantasia di Hashem Al-Ghaili, divulgatore scientifico e biologo yemenita.   https://www.youtube.com/watch?v=O2RIvJ1U7RE Nel filmato viene mostrata una grande fabbrica con laboratori altamente attrezzati: ognuno di essi può ospitare fino a quattrocento capsule di crescita o uteri artificiali. Ogni capsula è progettata per replicare le condizioni esatte che esistono all’interno dell’utero materno, e un singolo edificio può incubare fino a trentamila bambini all’anno. «Ectolife consente al bambino di svilupparsi in un ambiente privo di infezioni» spiega il video, che usa un tono da slogan pubblicitario e si rivolge a un “tu” generico, presumibilmente una donna interessata a diventare madre. 

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Hanno ucciso l’uomo ragno, inno di una generazione

A dodici anni come quasi tutte le coetanee ero fan assidua degli 883, e innamorata di Max Pezzali.  Si facevano cose stupide. Entrare con degli amici in un albergo abbandonato passando per una finestra rotta, trovare gli elenchi telefonici di tutte le città, cercare Pavia, trovare il fiorista Pezzali e da una cabina telefonica chiamare: «C’è Max?». E di là, sua madre, con infinita pazienza: «No, Max non c’è…». E dunque impossibile essere imparziali, nonostante siano passati trent’anni, verso una serie tv che parla di loro, gli 883. Se è vero che i fan sono i più assidui difensori dei loro beniamini, certo sono anche i più critici verso chi tenta di riprodurne la vita e la carriera. E infatti ero indecisa se vederla, questa serie che porta il nome della loro hit (Hanno ucciso l’uomo ragno), temendo una delusione. «Sarà zuccherosa», paventava qualcuno. Invece è bastato il trailer, un paio di battute, e ogni mia resistenza è sparita, e sono stata rapita e portata di colpo al 1990.   Prima cosa da dire: questa non è una serie, è un inno a una generazione.   Molte delle cose che hanno fatto Max e Mauro le abbiamo fatte tutti. Alcune anche per loro. L’episodio surreale dei due che una sera vanno a cercare un rospo sulla riva del fiume come alternativa a una sostanza stupefacente da dare a un disc jokey per rabbonirlo, chissà perché mi ha fatto ripensare a quell’estate, all’hotel abbandonato, al cercare il suo numero di telefono tra elenchi polverosi. A tutte le cose stupide che facevamo, proprio per quelli che erano i nostri idoli. Loro hanno creato un sogno. Quello che a un certo punto, in un momento malinconico, dopo il loro litigio Mauro sembra aver perso. Così per un po’, una manciata di anni, per noi quel sogno sono stati loro. La serie tv ha svariati pregi, di quelli che appartengono solo alla miglior commedia agrodolce italiana. Bella la fotografia degli anni Novanta, le strade di città con le vecchie auto targate Pv, la riva del Ticino. Lo zaino Invicta, le canzoni a nastro di quegli anni come colonna sonora. Splendida la prima inquadratura di Max e Mauro insieme, a scuola, con la telecamera che da Max allarga verso il compagno: «Un disegno complicatissimo che voleva che tu arrivassi su quel banco, su quella sedia». Emozionante il flashforward quando i due accendono per la prima volta l’impianto e di colpo la scena slitta alla vittoria del Festivalbar, e nella sigla finale la voce di Max attore che canta Nord sud ovest est si fonde con quella del vero Max. E poi il ritorno con il furgone da Milano dopo l’incontro con Claudio Cecchetto. «Quando diceva che “Non me la menare” la butta fuori. Fuori intendeva… in radio?». «Io non ci ho capito un cazzo». Gli 883 siamo noi. Noi che ci sentiamo fuori posto, noi che siamo sempre un passo indietro, noi che a quel sogno realizzato forse non ci arriveremo mai. Perché è l’aspettativa del sogno quella che ci tiene in vita. Anche a costo di passare il segno: «Ora, Max, il nostro motto deve essere: dignità zero!». Questa serie ci ha mostrato che loro, il nostro personale “sei un mito”, non erano poi diversi da noi. Ci ha detto: gli 883 erano voi, ecco perché vi piacevano così tanto. Ma Hanno ucciso l’uomo ragno piace anche ai più giovani, a chi gli anni Novanta non li ha vissuti. Perché certe cose sono per sempre, come l’idea di un’amicizia che duri per la vita. Alcuni episodi sono più leggeri, in altri affiora l’inevitabile nostalgia. Nel vedere le puntate un po’ abbiamo riso e un po’ ci siamo commossi, un po’ abbiamo cantato e un po’ abbiamo pensato: “Anche noi”. Perché lì davanti, come una cassetta che si riavvolge, sono scorsi gli anni. Quelli di provincia, tutti amici e motorino, che si sa non tornano più. E poi il riscatto di Mauro Repetto, che per noi era solo “quello che balla”, personaggio di spalla e marginale di difficile interpretazione, e si è rivelato invece, scoperta inaudita, l’anima di quel duo. «Se io sono qua – dice Max – è perché tu mi hai fatto credere che potevo starci». Una parentesi sugli attori, giovanissimi e poco più che esordienti, che hanno fatto un’ottima interpretazione;  semplicemente, non ci si accorge che stanno recitando. Per tutto il tempo, vige la sospensione dell’incredulità. Come se quella storia la stessero vivendo loro stessi e gli anni Novanta fossero il presente. Il regista Sydney Sibilia, classe 1981, ha realizzato un’opera semplice eppure grandiosa. Si perdona qualche sbavatura, un Fiorello poco “Fiorello”, alcune performance secondarie migliorabili, a volte accenti un po’ forzati. Perché in fondo ha fatto emergere tutto l’amore che abbiamo provato in quegli anni verso una band che tanto parlava di noi. E tutto l’amore che ancora proviamo verso quegli anni lì, incredibili, semplici, tanto nostri.

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Aggiustare cose

Di Francesca Redolfi Guarda su Amazon «Be’, se ha tutti quegli anni allora sarebbe il momento di cambiarla…». Con questa frase mi ha congedato l’azienda a cui mi ero rivolta per far riparare la cerniera di una federa. Una federa molto bella, tenuta con cura, che però aveva ceduto dopo svariati tentativi di riparazioni fai-da-te. Anziché cambiarla, avevo provato con la sarta e poi con la ditta produttrice. Che infine l’aveva sistemata. Pur dicendomi che sarebbe stato meglio acquistarne una nuova, non perché questa fosse usurata, ma semplicemente un po’ vetusta per gli standard odierni. Ho ringraziato e sono andata via con la mia vecchia federa riparata. Mentre tornavo mi sono trovata a pensare a quanto ci ostiniamo a tenere le cose, ad aggiustarle anche se sono rotte. Siamo forse l’ultima generazione che lo fa. Siamo i figli delle toppe alle ginocchia, quelle di colore sempre diverso dai pantaloni, portate con un po’ di imbarazzo ma non troppo perché le avevamo tutti. Tutti scivolavamo sui pavimenti lustrati con la cera, tutti ci arrampicavamo sugli alberi, giocavamo tra terra e campi. Lasciavamo buchi sui vestiti all’altezza di ginocchia e gomiti come orgogliose ferite di guerra, prova concreta di quel nostro modo felice di giocare. Di vivere. Solo più avanti sarebbero arrivati gli stickers da stirare al posto delle toppe, e allora ci sembrò un altro mondo, guardavamo quei colori brillanti come se impreziosissero i vestiti, come fossero gioielli scelti apposta anziché messi lì per cercare di salvare il salvabile. Siamo quelli che usano ancora la colla per la suola di una scarpa, che prima di cambiare il cellulare con lo schermo rotto lo sfruttano ancora per anni anche se si fa fatica a digitare sulla tastiera. Lo facciamo per un senso del risparmio, forse sobrietà, che ci insegnarono i nostri genitori, noi figli dei figli di chi ha fatto la guerra e ci ha inculcato il senso di non buttare mai nulla. O un po’ lo facciamo perché in fondo ci affezioniamo agli oggetti, quasi possedessero un’anima. Anche se forse l’unica anima che possiedono è la nostra. Per questo ripariamo cerniere. Per questo non vogliamo cambiarli. Facciamo fatica a separarcene. VAI AL LIBRO Loro sono tracce di quello che siamo stati. I pantaloni che lasciamo in fondo all’armadio per anni, solo perché loro c’erano il giorno in cui ci siamo laureati. La prima tutina che con cura infilammo a nostra figlia, taglia zero mesi. La maglietta che indossavamo quando incontrammo lui la prima volta. La boccetta vuota del profumo di quel giorno. A volte biglietti, scontrini, documenti di viaggio. Conserviamo quelle cose come se avessero il potere di riportarci lì. Di farci tornare per un istante a chi eravamo allora. I ricordi si nutrono di oggetti. Con quegli oggetti abbiamo talvolta un rapporto altalenante, un equilibrio precario che va dall’arte dello sbarazzo di Marie Kondo alla tendenza all’accumulo.    Poi talvolta accade che compiamo l’atto più doloroso. Ce ne separiamo. A volte lo facciamo con criterio, altre no. Come se di colpo sentissimo la necessità di recidere. Quando lasciai la casa dei miei genitori, decisi di fare un po’ di pulizie e di buttare qualcosa. Feci una drastica selezione, e tra le altre cose gettai via dei quaderni. Quaderni fitti, pieni di parole e cose, di quelli che erano gli anni della mia adolescenza. Un diario durato almeno un lustro. Quando li portai in discarica e li vidi precipitare nel contenitore, in quell’istante esatto, mi dissi: perché? Perché l’ho fatto? Avrei voluto tornare indietro, recuperare in fretta quelle parole, riprendere quello che ero, che ero stata. Non fu possibile, e i quaderni, con le loro frasi scritte impugnando forte la penna, parole leggere o tristi, pesanti o dolci, rimasero nel container. Non sempre gettare via è un bene. A volte riparare, tenere, è ciò che ci dona senso. Siano essi oggetti, situazioni, sentimenti. Persone. E questo auguro a ciascuno di voi in questi lievi giorni di autunno. Di riparare le cose quando possibile. Di lasciarle andare quando sono irrimediabilmente rotte. Di conservare ciò che è davvero importante. Ma soprattutto, di saperlo riconoscere.  SCOPRI LAND MAGAZINE Arianna Ciancaleoni Ottobre 3, 2024 Back to school: la playlist delle Vintage Girls Settembre. Tutto torna, inesorabilmente… e potevamo non tornare noi Vintage Girls con le nostre playlist del cuore, quelle che speriamo possano accompagnarvi in queste giornate che accompagnano le ripartenze e Read More Lorenzo Foschi Ottobre 2, 2024 Giovani autori – episodio 2 A CURA DI I LIBRI DI LORENZO FOSCHI Fai clic qui https://www.landeditore.it/wp-content/uploads/2024/10/2.mp4 Read More admin Ottobre 2, 2024 Guida ai Luoghi della Caccia alle Streghe in Europa Se sei appassionato di storia oscura, leggende medievali o semplicemente vuoi aggiungere un tocco di mistero al tuo prossimo viaggio, sei nel posto giusto! In quest’articolo ti porteremo attraverso alcuni Read More Oriana Turus Ottobre 2, 2024 La casa delle zucche – i racconti a tema di Land Magazine A CURA DI LA CASA DELLE ZUCCHEFin da quando era bambino, Freddy era stato una spina nel fianco per i suoi genitori. La madre, ostetrica nel vicino ospedale, e il Read More admin Ottobre 1, 2024 Lupi e cani sono nemici? 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Fughe letterarie: la letteratura di viaggio

Di Francesca Redolfi Guarda su Amazon Da sempre il viaggio esercita una grande attrattiva sull’uomo, perché sinonimo di scoperta, arricchimento, nuove terre da esplorare. Anche il raccontare viaggi, la cosiddetta letteratura di viaggio, ha origini antiche: si può dire che esista da sempre. A partire dall’Odissea, in cui Ulisse vaga per anni nel tentativo di tornare a Itaca, facendo di questo viaggio di ritorno un’epopea ricca di avventure e significati, passando per la Divina Commedia, cavalcando flutti e maree con Moby Dick, in questo genere letterario l’autore ci prende per mano conducendoci in luoghi diversi e forse portandoci anche, come dice Proust, a guardare il mondo con occhi nuovi. Questo cerchiamo nei racconti di viaggio: qualcosa che ci faccia evadere in posti lontani, dalla savana ai ghiacci del Polo Nord, dalle calde atmosfere di una fiesta messicana alle conturbanti notti orientali, dalle strade lastricate di Lisbona ai tuareg del deserto. Se è questo che state cercando, la partenza potrebbe essere On the road di Jack Kerouak, mentre restando in Italia Tiziano Terzani è considerato uno dei più grandi esploratori del genere. Ma sono tanti i titoli interessanti anche recenti, di cui proponiamo qui una rapida scelta. Un italiano in Islanda di Roberto Luigi Pagani L’Islanda raccontata da Roberto Luigi Pagani, fondatore del celebre blog Un italiano in Islanda. L’autore, che dal 2014 vive a Reykjavík, ci conduce alla scoperta dell’isola attraverso ventuno tappe fondamentali. Dalle case di torba di Glaumbær all’isola di Flatey, che dà il nome al più prezioso manoscritto islandese. Dalle vie trafficate e dai bar profumati di cannella della capitale ai solitari altipiani. Questo libro è una guida in cui si fondono mito, magia, storia, costume, geologia. Ma non solo: scopriamo l’Islanda anche dal punto di vista dell’autore che, con voce appassionata, ci racconta senza censure le difficoltà e la bellezza del vivere in un luogo così remoto, scardina pregiudizi e preconcetti, svela le differenze tra le nostre culture e ci narra la sua meravigliosa storia d’amore con l’isola di ghiaccio.   Tokyo tutto l’anno di Laura Imai Messina Laura Imai Messina, che ci vive da quindici anni e vi ha ambientato i suoi romanzi, ci accompagna in una Tokyo familiare e sconosciuta al viaggiatore occidentale, quotidiana, fatta di stradine nascoste, riti domestici, abitudini secolari e tradizioni modernissime. Tokyo tutto l’anno, arricchito dalle splendide illustrazioni di Igort, è un viaggio sentimentale, autobiografia in forma di città, enciclopedica lettera d’amore a una metropoli e ai suoi abitanti, indimenticabile romanzo di luoghi, personaggi, cibi, leggende, sogni.   Posti splendidi nel cuore della Calabria dove non tornerò mai più di Fabio Genovesi Uno scrittore che fin da bambino sogna di partecipare al Giro d’Italia si trova a seguire la gara e a raccontarla in veste di giornalista.Un viaggio on the road che attraversa l’Italia, 21 tappe appassionanti lungo le quali l’autore scoprirà che la tenacia e la passione dei corridori sono solo una parte della storia. Perché sarà proprio tutto quello che accade intorno alla corsa a rendere il viaggio strepitoso. Lungo le strade secondarie, nel cuore selvatico o cementificato della provincia italiana, si rischia di perdersi a ogni bivio mentre si incontrano folle festanti e personaggi clamorosi, paesini pazzeschi come la gente che li abita, proprio come l’assessore di questo splendido paese nel cuore della Calabria, determinato a portare all’attenzione del pubblico la più splendente delle glorie locali, il misconosciuto Mimmo Minnini…     Profondo come il mare, leggero come il cielo. Un viaggio dentro se stessi per trovare la serenità di Gianluca Gotto «Il mondo là fuori, con il suo rumore e il suo caos, proverà sempre a entrarti dentro. Arriveranno pensieri nuovi, difficili da affrontare. Non affrontarli, allora. Torna all’origine: calma la mente. Sdraiati su un prato e guarda lassù. Tu non sei le nuvole, che vanno e vengono e sono sempre in movimento. Tu sei il cielo». In questo libro, Gianluca Gotto condivide gli incontri, le esperienze e i tanti insegnamenti che lo hanno salvato nel momento più buio della sua vita. Un libro intimo e generoso, pieno della saggezza millenaria – ma quanto mai attuale – del Buddha e di consigli pratici per trasformare la sofferenza in un terreno fertile in cui la felicità possa mettere radici.   Destinazione Viaggio di Ilaria Cazziol Un libro sul viaggio non come vacanza, ma come strumento di cambiamento. Combinando elementi della guida pratica e del racconto di viaggio autobiografico, l’autrice porta il lettore a scoprire come viaggiare più a lungo, meglio e spendendo meno, come fanno i nomadi digitali o i viaggiatori solo andata. Dal capire se questo genere di viaggio fa per noi, passando per la preparazione del budget, la gestione delle aspettative altrui, la ricerca di un lavoro da nomade digitale, la valigia o zaino, questo libro ispira a intraprendere un percorso personale di crescita e cambiamento.   La rotta per Lepanto di Paolo Rumiz Un libro da leggere accompagnati dal cullare delle onde. Il fulcro del racconto di Rumiz non solo sono le affascinanti rotte marine ma è anche l’incontro con uomini e donne di mare, seguendo le tracce della Serenissima e la malinconia dell’orizzonte. Si attraversano baie solitarie, osterie, marinai silenziosi, e luoghi come Venezia, Parenzo, Pola, Ragusa, Corfù, carichi di storia e bellezza. Un reportage per lupi di mare, che guarda a Est riflettendo su chi siamo stati e il senso profondo di una Europa fatta da popoli diversi, una comunità variegata e arricchente.   Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya di Paolo Cognetti L’Himalaya non è una terra in cui avventurarsi alla leggera: è una montagna viva, abitata, sfruttata, a volte subita, molto lontana dalla nostra. La passione per la montagna, famosa in Cognetti, torna in questo libro. Che cos’è l’andare in montagna senza la conquista della vetta? Un’opera di narrativa che si ispira a un viaggio realmente accaduto, taccuino di viaggio, ma anche racconto illustrato, caloroso, dettagliato, di come vacillano le certezze col mal di montagna, di come si dialoga con un cane tibetano, di come il paesaggio diventa trama del corpo e dell’anima. ano ai margini delle lunghe highway percorse dall’autore.

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Se la letteratura è cieca

Il global warming e la “grande cecità” Di Francesca Redolfi Guarda su Amazon «In un mondo sostanzialmente alterato, un mondo in cui l’innalzamento del livello dei mari avrà inghiottito le Sundarban e reso inabitabili città come Kolkata, New York e Bangkok, i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi innanzitutto tracce e segni premonitori del mondo alterato che avranno ricevuto in eredità. E non trovandone, cosa potranno, cosa dovranno fare, se non concludere che nella nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù in modo da nascondere la realtà cui si andava incontro? E allora questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della Grande Cecità». Il saggio di Amitav Ghosh – antropologo e autore di romanzi di fama mondiale – La Grande Cecità, portato in Italia da Neri Pozza nel 2017, parla di una questione estremamente interessante: il cambiamento climatico visto (o meglio, non visto) con gli occhi della letteratura. Il tema del global warming, infatti, quando appare su riviste letterarie lo fa solo in forma di saggistica, oppure è l’ingrediente che basta per relegare un romanzo o un racconto nel genere della fantascienza. Anche se ciò che viene descritto spesso tanto fantascienza non è, ma è ciò che accade già, o che è appena dietro l’angolo. Di fatto però la letteratura, e forse l’arte in generale, di fronte a questa drammatica realtà è stata cieca. In un’epoca in cui letterati e intellettuali si sono immolati in difesa delle libertà degli uomini, la lotta alle discriminazioni e la denuncia delle disuguaglianze, invece il tema del cambiamento climatico, che potrebbe mettere a repentaglio l’intera sopravvivenza umana, è stato assente o marginale. Scrittori e artisti non hanno saputo dare voce alla natura. VAI AL LIBRO Ghosh nel suo saggio sonda i motivi di questo silenzio, ma soprattutto ci spiega perché è tanto grave: «Il grande, insostituibile ruolo della finzione narrativa è far immaginare altre possibilità. E la crisi climatica ci sfida proprio a immaginare altre forme di esistenza umana, perché se c’è una cosa che il surriscaldamento globale ha perfettamente chiarito è che pensare solo al mondo così com’è equivale a un suicidio collettivo. Per avere qualche possibilità di sopravvivere, abbiamo bisogno di figurarci come potrebbe essere».  Del resto, a cosa serve la letteratura se non a questo scopo? Far immaginare come potrebbe essere il mondo, e quali soluzioni inventare “se”. E se è vero che la storia non si scrive con i “se” e con i “ma”, i libri sono proprio quello spazio visionario che ci permette di sperimentare questo grande “se”. Anzi, è doveroso che lo facciano.  Eppure, come sostiene Ghosh, il cambiamento climatico non trova spazio nella narrativa. Ma forse, potremmo azzardarci a pensare, questo accade perché, come succede quasi per ogni evento della vita, quando ci si è dentro non si ha la lucidità necessaria per parlarne, per capirlo davvero.  Non lo si fa apposta, non c’è colpa, ma di fatto si crea come una sorta di tabù della narrazione, di censura dell’immaginario, di nebbia della conoscenza. Sappiamo, sì, che quella cosa potrebbe accadere, anzi, che sta già accadendo, che lassù da qualche parte i ghiacciai si ritirano e le nevi si sfaldano. Ma ne abbiamo paura, non riusciamo ad affrontarlo, forse siamo sopraffatti da un sentimento di impotenza, e allora se lo raccontiamo lo releghiamo per forza di cose nella narrazione di fantascienza. Perché messo lì fa meno paura. Chi narra di questo viene dunque esiliato, come dice Ghosh, nelle «abitazioni che circondano il castello. Quegli annessi un tempo conosciuti come “gotico”, “romance”, o “melodramma”, e adesso chiamati “fantasy”, “horror”, “fantascienza”». Eppure, leggendo il saggio dell’antropologo ci aspettiamo, forse speriamo, che in qualche modo invece qualcosa possa mutare. Che questo tema sempre più pressante del cambiamento climatico possa essere innalzato alle glorie della narrativa, e che prima o poi possiamo aspettarci di trovare nei romanzi – quelli che parlano di normalità, della vita di tutti i giorni, degli argomenti ordinari che tutti ci troviamo ad affrontare – anche questo argomento, anche ciò che, nostro malgrado, sta divenendo parte della normalità. 

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